Riccardo Piacci, Mental Coach della Digital Combat Academy

Gli studi in Scienze della Comunicazione, l’esperienza di lavoro in Vaticano, il costante ascolto della società moderna. Ecco la persona al ‘servizio’ dei nostri studenti

Non è un motivatore, perché non ti trasforma in un guerriero impeccabile. Al contrario, lavora sul raggiungimento di una stato di consapevolezza che rende non necessario il bisogno di motivazione esterna.

Non è un filosofo, perché non naviga nel mondo dell’astrazione. Al contrario, conosce bene i lavori moderni del digitali e aiuta gli studenti ad abbracciare una professionalità responsabile che veicoli contenuti positivi.

Non è un leader, perché non suggerisce una guida. Al contrario, suggerisce strade alternative e si pone ‘servo’, inteso come fautore di un vero e proprio ‘servizio’.

Riccardo Piacci è il Mental Coach della Digital Combat Academy. Lavora in team con il Direttore Accademico e il Capo delle Risorse Umane. Si occuperà di accompagnare gli studenti durante e dopo il Corso in Aula di Marketing Digitale. Consentirà, a tutti, di trovare una ‘propria verità’.

Se tu dovessi dipingere un quadro per noi, come disegneresti la figura del Mental Coach?

“Ritengo che la figura del Mental Coach si inserisca nel contesto lavorativo e professionale come una figura ‘intermedia’, inteso come qualcuno che si pone nel mezzo, fra le parti. È vero che oggi si sta affermando una visione moderna (e più efficace) del contesto lavorativo, inteso come impostazione e sviluppo dei rapporti tra i vari ruoli professionali. Faccio riferimento al progressivo abbandono del modello rigidamente gerarchico dei ruoli professionali, o quantomeno all’esasperazione del modello gerarchico verticale, dal capo ai sottoposti, in favore di una concezione ‘orizzontale’ più orientata alla percezione di equità tra i ruoli, che stimola attaccamento e responsabilizzazione in modo naturale e non facendo leva sull’autorità.

La scelta di questa soluzione ha a che fare direttamente con due elementi che sono legati indissolubilmente l’uno all’altro: la serenità professionale (quindi umana) e la resa lavorativa. Scardinare il sistema di lavoro prettamente quantitativo (più ore di lavoro = maggiore produzione) sembra porsi come una sfida intelligente e avvincente da poter raggiungere. In questo contesto sembra evidente lo spostamento del baricentro della produzione da un lavoratore-macchina a un lavoratore-mente.

All’interno di questa nuova armonia trova posto la figura del Mental Coach come enzima catalizzatore dell’efficacia professionale delle varie figure lavorative. Spesso si propone come spunto di partenza i tre concetti di leader, guida o aiuto. Dovendo scegliere proporrei un quarto concetto, quello di ‘servo’ inteso come fautore di un vero e proprio ‘servizio’. Ottimizzare, catalizzare, sciogliere nodi, suggerire punti di vista e termini di paragone alternativi sono servizi resi solamente in funzione del raggiungimento di un focus lavorativo che è alla base di un’esperienza professionale positiva, quindi produttiva.

Il Mental Coach non nasce di per sé come un leader in quanto tale, nonostante acquisisca fiducia e autorevolezza sul campo, non si vuole porre come una guida, piuttosto come qualcuno che suggerisce strade alternative (trovo che il concetto di guida sia riduttivo, cioè riduce il rapporto a una relazione tra qualcuno che ‘guida’ per l’appunto, e qualcuno che è ‘guidato’. Credo invece che il mental coaching sia legato a una relazione di tipo ‘maieutico’). Infine l’aiuto non è una prerogativa di una figura in particolare, ma qualcosa che chiunque all’interno di una squadra dovrebbe praticare senza riserve. Quindi il concetto con cui mi trovo più a mio agio è quello relativo al ‘servizio’.

Il confine tra Mental Coach e Motivatore è spesso sottile. Specie in America, i Motivational Speaker fomentano il popolo in cambio di, spesso, un cospicuo tornaconto economico. Il Mental Coach no, è mosso da altri valori. I tuoi quali sono?

“È vero il confine è sottile. In particolare sembrerebbe che le finalità di entrambi possano essere simili. Esiste un ostacolo ed esiste qualcuno che cerca di attraversarlo ed entrambe le figure sembrano porsi come obiettivo il fatto di rendere possibile la neutralizzazione dell’ostacolo. Il punto credo sia nel modo in cui questo viene fatto, o meglio nel tipo di rapporto che si crea come base per il raggiungimento di questo obiettivo. Se la caratteristica principale di questo rapporto è il fatto di essere ‘motivazionale’, essa appare come uno stimolo esterno, cioè come qualcosa che arriva da fuori e si pone come strumento da utilizzare.

Il Motivatore può essere l’aiutante che, quando sei in difficoltà, ti passa la pozione magica che ti trasforma in un guerriero impeccabile. Mi piace pensare che il Mental Coach sia qualcuno che promuove una crescita interiore completamente ‘self-made’ e frutto di un proprio percorso interno. Cioè il punto non è tanto quello di dover trovare l’ispirazione da un Motivatore, ma lavorare sul raggiungimento di una stato di consapevolezza che rende non necessario il bisogno di motivazione esterna. L’obiettivo è riuscire ad essere Motivatori di noi stessi!”.

Chi ti conosce davvero riconosce la tua leadership lontano un miglio. Chi non ti conosce potrà assaggiarla dal vivo. Ma pensiamo a chi ci legge, qui-ed-ora. Pensi che la leadership sia innata o si possa acquisire cammin facendo?

“Ogni qualvolta si tira in ballo il discorso antitetico tra l’avere delle doti innate e acquisire le stesse caratteristiche col tempo, qualunque sia il contesto di riferimento, bisogna fare a mio avviso sempre lo stesso distinguo. È ovvio che ognuno nasce con alcune determinate caratteristiche, che porteranno la persona ad una predisposizione verso alcune discipline o arti piuttosto che verso altre.

Nel campo in cui stiamo giocando ora è chiaro che esistono alcune caratteristiche umane maggiormente favorevoli allo sviluppo di un certo ascendente verso il prossimo, che è la leadership appunto. Tutti i caratteri che riguardano una certa predisposizione a stringere un legame umano reciproco, costituiscono chiaramente un’ottima base sulla quale costruire l’identità di leader. Tuttavia, nascere con queste caratteristiche, non rende automatico il processo che porta a diventare un buon leader.

Possiamo dire che il principio generale è che le caratteristiche favorevoli con cui nasciamo facilitano il raggiungimento di un determinato obiettivo, ma non averle, non preclude assolutamente il raggiungimento dell’obiettivo stesso. Ogni disciplina deve essere esaminata al fine di ricavarne l’essenza fondamentale, estrapolarne i caratteri sostanziali, studiarli e assumerli facendoli propri. Quindi da soli i caratteri innati non bastano. Non voglio approfondire il discorso sulle caratteristiche fondamentali di un leader, non voglio rubare troppo tempo e soprattutto esiste una letteratura specifica più che abbondante, però certamente posso dire che queste caratteristiche si assumono imparando a stabilire un rapporto sincero e paritario con le persone, lavorando al massimo sulla propria empatia e sulla propria intelligenza emotiva.

La leadership non è direttamente correlata al comando, non è qualcosa che riguarda l’imposizione delle proprie idee o la delega dei propri doveri. Anzi, riguarda l’assunzione di responsabilità e il riconoscimento dei meriti dei propri collaboratori. Un leader efficace non si fa scudo della sua posizione professionale privilegiata, ma anzi contribuisce al miglioramento di tutti i suoi collaboratori. Un buon leader non cerca la glorificazione, ma plaude in silenzio il successo dei suoi collaboratori. La gratificazione è una piacevole conseguenza, non il motore che muove le nostre azioni.

Un’altra cosa indispensabile per essere un leader credibile è il fatto di conoscere ogni aspetto dei diversi incarichi che i suoi collaboratori ricoprono. E con questo non intendo solo dire che dovrebbe semplicemente ‘saper fare’ tutto, dovrebbe inoltre conoscere tutti i piccoli risvolti che si celano tra le righe di ogni ruolo, di ogni mansione e compito. Quando si parla di un qualsiasi incarico professionale, dal panettiere al broker di wall street, ci sono, oltre alla conoscenza prettamente tecnica delle proprie mansioni, tutta una serie di elementi complementari che si conoscono solo svolgendo quel lavoro per molto tempo.

Fare il barista non vuol dire solo fare il caffè e gli scontrini, ma può voler dire avere a che fare con decine di fonti di stress o affaticamento difficili da percepire dall’esterno. Il rapporto con la clientela, anche quella più ‘difficile’; i turni, i colleghi, il rapporto con i fornitori, la fatica fisica, le responsabilità legate alla somministrazione di alimenti freschi. Chi vive sulla propria pelle queste micro realtà nascoste, certamente digerirà con difficoltà le indicazioni di un capo che ignora queste stesse dinamiche. Viceversa conferirà autorevolezza a chi dimostra grande empatia e vicinanza, umana e professionale. La leadership come sai, ha a che fare con l’autorevolezza appunto, non con l’autorità. Direi che ha più a che fare con la seduzione. Ecco, diciamo che un capo troppo autoritario è come un uomo che paga le donne per possederle, un vero leader fa ti fa innamorare di lui!”.

Studente a Scienze della Comunicazione. Barman a nei locali di Roma, fino agli incarichi alla Santa Sede. La prova vivente che in un mondo liquido i percorsi, accademici e professionali, non sempre seguono una linea retta. Cosa ti ha permesso di adattarti a contesti così variopinti?

“È vero, la società diventa sempre più fluida, nel senso che col tempo vengono meno alcune strutture di riferimento alle quali siamo stati abituati ad appoggiarci. Il percorso professionale di ognuno ha ormai deragliato dal vecchio concetto di ‘carriera’ in senso prettamente lineare, da una posizione più bassa una più alta. Sembra ormai desueto quel modo di pensare tipicamente aziendale legato al posto fisso, alle promozioni, agli scatti di anzianità. Una percezione del lavoro e dell’evoluzione professionale in qualche modo ‘passiva’, un po’ da impiegato vecchio stile diciamo.

Quello che sta accadendo in realtà, non è necessariamente positivo, ma è una reale reazione del contesto professionale moderno a questo momento storico in cui sembrano venire meno molte certezze (lavoro, casa, famiglia, futuro, ecc..) e il mondo per non rimanere schiacciato, come hai fatto notare tu, diventa più liquido. È tutta una questione di reazione. Di fronte a un cambiamento, possiamo irrigidirci tentando di fare resistenza alla corrente, o possiamo intercettare questo cambiamento e cercare di modellarlo per affermare la nostra vittoria sul caos del presente.

Faccio di nuovo riferimento a quanto accennavo mentre si parlava del leader. La chiave fondamentale anche qui è la capacità di lettura dei caratteri fondamentali che creano il contesto in cui ci inseriamo. Per uscire indenni dalla confusione di un mondo sempre più destrutturato, dobbiamo ridurre ai minimi termini la realtà, scomporla, analizzarla, capirla, digerirla, farla nostra in ogni suo aspetto, capire i nessi causali acquisendo la capacità di prevederli. Si tratta di capire dove si infrangerà l’onda prima che ciò accada. La precisione di un chirurgo e l’estro di un artista.

Questo vale anche per la mia storia personale. Nei vari momenti della mia vita ho cercato di non ‘subire’ la realtà, ma di indirizzarla verso una crescita continua. Insieme a questa capacità di lettura c’è un altro aspetto che ritengo fondamentale. Da quel poco che hai citato della mia vita traspare un concetto molto importante, cioè l’importanza della trasversalità delle competenze. L’acquisizione di competenze trasversali deriva da un atteggiamento generale di umiltà verso le sfide che ci vengono poste innanzi. Specializzarsi è fondamentale, ma questo non vuol dire chiudere la strada all’apprendimento trasversale, che è la chiave per passare dall’essere un mero esecutore a essere una figura in grado di incrociare le diverse sensibilità e abilità”.

Il mondo va veloce, la società è schiacciata sul presente, la storia non esiste. Come possiamo fuggire all’eterno presente e hackerare con empatia la nostra vita?

N”on è facile rispondere a una domanda del genere in poche righe, perché per tracciare un profilo accurato del nostro presente, bisognerebbe fare riferimento a molte situazioni socio-culturali contingenti, soprattutto in un paese culturalmente molto complesso come l’Italia. L’appiattimento di cui si parla qui, deriva dall’estrema individualizzazione che sta tormentando la nostra società e che sta tristemente colorando di toni di grigio la nostra vita.

Stiamo esasperando un modello di vita improntato a una realizzazione personale sofferta, ambita in modo sfrenato, che finisce appunto con lo schiacciarci. Nel momento di caos e instabilità che stiamo vivendo mi sembra necessario dare un senso a quello che facciamo, per recuperare una dimensione lineare, di progresso, anziché girare in tondo su noi stessi come un pesce rosso nella sua boccia.

Quando si dice che la storia non esiste, credo si faccia riferimento al fatto che ormai vale una prospettiva prevalentemente incentrata sul qui e ora, sulla realizzazione personale da un punto di vista molto pratico e pragmatico. Sul confezionare, quindi, tante ‘mini affermazioni di noi stessi in confezione singola’. Questo svilisce molto il modo in cui viviamo la nostra vita. È un peccato vedere che questo tipo di atteggiamento spesso viene imposto da datori di lavoro che sotto la parola ‘lavoro’ tristemente nascondo le peggiori nefandezze!

Proprio pochi giorni fa un mio amico consulente mi raccontava di come dopo una consulenza prestata a una società, il responsabile si fosse rifiutato di pagarlo perché ‘siamo in Italia e bisogna fare un po’ di gavetta’. Questo, oltre a essere professionalmente ai limiti del disgustoso, annulla completamente l’umanità e la prospettiva di un lavoratore. È un modo di utilizzare i lavoratori come fossero macchine senza futuro, utili in quell’istante e poi gettati altrove. Questo è molto triste.

Per quanto riguarda l’empatia, restando comunque nell’ambito professionale, invece, credo sia interessante recuperare una finalità più umana della propria professionalità. Credo e spero che stia tramontando l’epoca in cui lo scopo finale del proprio lavoro sia l’accumulo di capitale fine a se stesso. Credo che le nuove professioni siano molto più empatiche e vivano di una dimensione di miglioramento della vita dei clienti o delle persone con cui si entra in contatto.

Le professioni digitali possono essere uno strumento divulgativo di una professionalità responsabile che veicola contenuti positivi. Un social media manager può aiutarti a trasmettere un’immagine positiva di te, di cui poi ti trovi ad essere responsabile e che ti invita quindi a cercare di esserne all’altezza; una creatore di contenuti ha a che fare con strumenti divulgativi molto efficaci, e dovrebbe utilizzarli per trasmettere contenuti validi, oltre che, magari, per creare trend e vettori pubblicitari seducenti. Il mondo, anche professionale, ancorato a delle prospettive obsolete, ha bisogno di uno scossone e credo che questa rivoluzione debba essere anzitutto una rivoluzione culturale, per questo insisto su questi temi!”

Domanda di rito. Tre consigli ai giovani neolaureati che vivono un momento di smarrimento, e avrebbe bisogno di un’idea sfidante, di un input inaspettato, di uno stimolo intellettuale.

“Qui possiamo ricollegare quanto dicevo in precedenza. Il neolaureato deve capire la sua identità professionale, deve capire chi è, prima di capire quanto vuole in busta paga, o quanti scatti di carriera può fare nel minimo tempo possibile. Quindi, il primo consiglio che mi sento di dare (a un neolaureato) è quello di capire la propria verità, e agire di conseguenza, chiedersi ‘chi sono io’ ‘qual è la mia natura’. Capirlo e non tradirla mai.

La seconda cosa importantissima che mi viene in mente è tenere sempre le orecchie aperte, fare massima attenzione verso tutto, essere acuti osservatori e ottimizzare in modo intelligente le proprie conoscenze trasversali. Il sentiero professionale che una persona intraprende è solo una grande strada maestra che va arredata con tutti gli elementi personali che compongono e arricchiscono la storia che è la tua vita. Hai scelto una carriera nell’editoria, nel giornalismo? Nelle professioni digitali? Bene. Ora devi personalizzare e rendere unico il prodotto che vendi, cioè te stesso. Hai delle passioni? Ami lo sport? Hai avuto un’educazione alla quale credi molto, alla quale sei molto attaccato? Lascia che aggiunga carattere alle tue scelte. Ogni esperienza in tuo possesso è un’arma che puoi usare per sedurre il mondo.

La nostra vita è un calderone di persone, esperienze, lavori frustranti e lavori appaganti, e tutto alla fine viene al pettine per formare l’individuo unico che sei, quindi occhi aperti perché il mondo è pieno di armi da usare per conquistarlo, celate nei contatti, nelle passioni, nei nemici e in tutti gli elementi che orbitano nella nostra vita.

La terza cosa è che quando ti trovi davanti a uno stallo, non sai come andare avanti (e neanche indietro!) e ti sembra che stai per avere una crisi di nervi, non forzare, non spingere al massimo il tuo cervello o lo fonderai! Se hai messo tutta la tua concentrazione, tutto il tuo impegno, nella risoluzione di un problema, sia pratico che mentale, e ancora non sembri venirne a capo, evidentemente quel problema non è ancora maturo per essere risolto, oppure il tuo cervello non è stato messo nelle condizioni di risolverlo, quindi inutile farlo andare fuori giri! Non sai se fare un master dopo la laurea? Non sai quale master scegliere e hai poco tempo e ancora non hai la minima idea di cosa fare? Ottimizza i tuoi sforzi mentali, rifletti in modo intelligente e soprattutto metti il tuo cervello nelle condizioni di arrivare alla risposta in modo naturale. Recita, calati nella parte e lascia che il tuo cervello lavori e produca le emozioni chiave per risolvere da solo il tuo problema. Quindi, in poche parole, favorite i meccanismi di risoluzione dei problemi del vostro cervello, la vita sarà più facile!”.