Marco Stancati, Consulente Illuminato & Docente di Comunicazione Non Ortodosso
Amiamo condividere storie e opinioni di studenti e laureati in Comunicazione. Ma se provassimo a guardare le cose dal punto di vista della cattedra?
In relazione alla trasmissione della conoscenza, il rapporto tra persone può prendere vie infinite. Esistono ad esempio le persone a cui bisogna insegnare tutto. Poi ci sono le persone che riescono a contaminarsi a vicenda. Infinite, esistono le persone da cui, piaccia o meno, si può solo che imparare. Marco Stancati, per la nostra community, rappresenterà una di queste persone.
Una scuola intelligente, dopotutto, è una scuola che insegna a chi sa di meno e impara da chi sa di più. Marco Stancati è un leggendario Docente della Facoltà di Comunicazione alla Sapienza di Roma e, in quanto tale, portatore di una chiave di lettura sul mondo diversa da quella della Digital Combat Academy, che comunque è una scuola privata di specializzazione. Per questo, intervistare Marco Stancati e condividere con la nostra community tanto la sua storia quanto i suoi pensieri rappresenta un privilegio.
Si tratta di dare voce a un punto di vista contrapposto, o comunque diverso, da quello che solitamente proponiamo. Perché spesso facciamo da megafono a studenti e neolaureati in Comunicazione critici nei confronti della praticità dei rispettivi percorsi accademici. E ospitare Marco Stancati, insieme al suo illuminato modo di vedere il mondo, non significa rinnegare questa criticità.
Significa dimostrare che la partecipazione al sistema accademico tradizionale non si traduce matematicamente in assenza di pragmatismo, o in mancanza di attaccamento alla realtà delle cose. Significa dimostrare, soprattutto, dimostrare che quando si affronta un tema così delicato, come quello della trasmissione della conoscenza, la conversazione non può essere ridotta a bianco e nero.
Ebbene, nelle parole di Marco Stancati è possibile cogliere infiniti spunti di riflessione circa il passato e il presente della formazione. Dal valore del network negli anni ’70 ai consigli preziosi sulla migliore strada da prendere oggi per avere successo, da Federico Caffè alla California, ecco cosa significa rappresentare un punto di riferimento per le generazioni a venire. Parola al Prof. Stancati.
Ci troviamo nel 1971 e (il futuro Prof.) Marco Stancati si laurea in Scienze Politiche. Che studente era quel Marco Stancati?
“Uno che non pensava proprio che un giorno si sarebbe trovato a insegnare nella medesima Università.
Il 1971 fu l’inizio di un decennio tremendo per il nostro Paese: nel ’68 avevamo avuto l’illusione, noi ventenni, che avremmo cambiato il mondo e rapidamente. In meglio, ovviamente. Poi arrivò la deriva terroristica, la crisi petrolifera, l’imbastardirsi della politica, le deviazioni degli apparati statali, l’assassinio di Moro, i feriti e i morti anche dentro l’Università…
Fino a tutto il terzo anno fui uno studente entusiasta: l’Università mi aveva liberato dagli orari fissi, dalle scelte obbligate, dai compiti… e mi aveva aperto il mondo delle relazioni elettive: non mi limitavo ai docenti della mia Facoltà ma spaziavo dappertutto e anche fuori l’ambito universitario. Così parlavo con Moro e Caffè, ma anche con Burri e Pasolini, con Leone e Mortati ma anche con Fellini, Beyus e Munari. Sì, non lasciavo in pace nessuno.
Dal quarto anno, il clima non mi piacque più. Si respira quotidianamente tensione e violenza, ci si ubriacava di ideologia: anche se ero in una Facoltà che cercava di ragionare tra la nerissima Giurisprudenza e la rossissima Lettere e Filosofia. Feci gli ultimi esami tra assalti del Movimento studentesco e cariche della Polizia, tra incursioni di sedicenti Comitati garanti dell’agibilità politica dell’Università e mulinelli dei celerini, tra lacrimogeni e idranti… In quell’anno morì anche un’icona del ’68, Jim Morrison, e John Lennon compose la sua canzone più bella: Imagine. L’ascoltavo, mentre andavo a ritirare il diploma di laurea, utilizzando il massimo della tecnologia dell’epoca: una radiolina tascabile a transistor”.
Che visione aveva del proprio futuro lo studente di allora?
“Ero proprio un figlio del ’68: volevo uscire da casa prima possibile e quindi dovevo rendermi indipendente. Uscire da una casa nella quale peraltro si stava benissimo: vengo da un’agiata famiglia borghese. L’anno dopo la laurea fu frenetico: lasciai le collaborazioni part time con la Gabetti e la Marketing, entrai all’Inail, mi sposai e un mese dopo mi ritrovai alla Scuola di guerra aerea di Firenze come allievo ufficiale (c’era il servizio militare obbligatorio all’epoca).
Il capitano, incaricato di accogliere gli allievi, lesse la mia bio e mi chiese: ‘Ma perché corre così? Non ha ancora 24 anni! Cosa pensa di fare nei successivi cento?!’. ‘L’artista’, risposi senza esitazioni.
Sì, ero certo che avrei fatto l’artista o che comunque avrei continuato a occuparmi d’arte. Le cose poi sono andate diversamente. Ma l’arte è rimasta una passione costante, del resto è comunicazione per eccellenza: ho sempre usato molte metafore artistiche come manager, come consulente, come docente e non smetto mai di sollecitare la partecipazione degli aspiranti comunicatori ai grandi eventi ma anche a quelli piccoli e significativi.
Sono stato un manager non convenzionale (ho innervosito più di un Presidente, fatto arrabbiare più di un direttore generale; a volte, avevano pure ragione), sono un consulente anomalo (miro a levarmi dai piedi il più presto possibile e a non creare dipendenza), sono un docente non ortodosso (sostenitore dell’interdisciplinarità, aperto alle contaminazioni; coinvolto, e qualcuno dice fin troppo, nelle storie degli studenti). E un sacco di altri difetti”.
Piccole, medie, grandi imprese. In quanto consulente aziendale la vita l’ha portata a vedere – e studiare – molteplici contesti professionali. Ipotizziamo dunque che Marco Stancati abbia nuovamente 19 anni, e si sia appena segnato nella Facoltà di Comunicazione con l’obiettivo di ottenere il meglio dalla vita. Quali competenze tenterebbe di attaccare per assicurarsi il maggior numero di porte aperte e, verosimilmente, un futuro soddisfacente?
“‘Attaccare le competenze’ mi piace.
Innanzitutto quella di base: il saper comunicare. Un’idea, un progetto, una criticità, un errore, una strategia, una competenza, un metodo, … se stessi. Vedo troppi studenti, ma anche troppi manager, che non sanno scandire una domanda, rappresentare un punto di vista, articolare una proposta, dare un ritmo alle parole, entrare in una relazione vera con l’interlocutore. Troppi aspiranti comunicatori d’impresa che non hanno il dominio dei livelli di sintesi: quante e quali cose dire, va deciso in rapporto al pubblico specifico e al tempo che hai a disposizione. Così come vedo troppi CV inutilmente prolissi. La sobrietà è vincente: una cosa importante non ha bisogno di molte parole per ‘suonare’ importante. Per questo, fin dalla prima lezione, obbligo gli studenti a uscire dai banchi e dal branco e a porsi come interlocutori.
Poi la conoscenza delle lingue, a cominciare dalla propria: la povertà di linguaggio e di linguaggi è un ghetto (e lo dico con autocritico rammarico: parlo un discreto francese, ma il mio inglese è povero e orrendo…).
Infine devi decidere qual è il tuo obiettivo, se vuoi essere uno specialista (e allora, appena hai deciso, cerca le migliori occasioni formative e/o lavorative il più possibile vicino ai migliori di settore) o, invece, un regista di flussi comunicativi. In quest’ultimo caso ti servirà saper leggere il contesto e la sua evoluzione. Il livello strategico della comunicazione, tipo Responsabile della Comunicazione di una grande azienda, richiede cultura (e quindi buone letture ed esperienze diversificate), visione, capacità di selezione e gestione dei collaboratori; e una grandissima energia. Sì, ci vuole un fisico bestiale”.
Convincere uno studente di Comunicazione del valore della Comunicazione è una cosa. Ma convincere dello stesso valore il Direttore Amministrativo di un’azienda che – ipotizziamo – produce divani, è tutt’altra storia. Quali sono le resistenze principali che un Consulente di Direzione incontra quando affronta un territorio vergine di Comunicazione Aziendale?
“Le resistenze derivano da tre ordini di difficoltà:
- chi ti chiama ha in testa una sua diagnosi, non ti espone il problema ma quella che ritiene essere la soluzione. Soluzione spesso da bacchetta magica, nella logica ‘ti pago, fammi il miracolo!’; e, il più delle volte, in una situazione di crisi già esplosa;
- faide interne all’azienda: al consulente del Presidente, l’AD vuole contrapporsi con un suo consulente;
- l’ingenuità di pensare che per fare una buona comunicazione d’impresa basti rivolgersi a qualificati fornitori esterni (una buona agenzia di comunicazione e un buon consulente dell’impresa)”.
Ecco, parliamo del terzo caso: la resistenza a investire sulle risorse interne esternalizzando la comunicazione. Può riassumerci un caso significativo?
“In un’azienda, non di divani ma di scarpe, erano pronti a investire più di un milione di euro per una campagna pubblicitaria. L’azienda di medie dimensioni (175 lavoratori, circa 40 milioni di fatturato) non aveva nessuno all’interno che si occupasse di marketing e di comunicazione. L’agenzia di pubblicità era stata scelta direttamente dall’AD al quale era venuto in extremis qualche dubbio e mi aveva chiamato, come esperto di linguaggi pubblicitari e media planning, per valutare la campagna. Che era molto buona come creatività, ma la pianificazione a mio avviso era sovradimensionata su alcuni media. Dopo una più attenta puntuale analisi, anche l’agenzia ne convenne.
Allora proposi all’AD questa ipotesi: ‘riduciamo di 200mila euro il budget del media planning e utilizziamo in parte questo ‘risparmio’ per assumere, in via sperimentale per un anno, due laureati in comunicazione (che, considerati tutti gli oneri anche riflessi, non costeranno più di 80mila euro); ti aiuterò a selezionarne uno senior e uno junior. L’azienda avrà così finalmente una competenza interna in campo comunicativo, e non solo per la comunicazione di prodotto; forse la prossima volta non avrete più bisogno di un consulente. Se poi i due giovani non dovessero funzionare, alla fine dell’anno non gli rinnoverai il contratto!’.
Per necessità di sintesi, vado al finale: dopo otto anni, l’azienda ha ancora due comunicatori (non gli stessi che hanno ‘fatto carriera’, ma altri due, selezionati dai medesimi prima di andarsene). Ecco, per convincere un imprenditore, un CEO della media impresa, gente molto concreta, devi partire da cose altrettanto concrete e non fare ragionamenti sofisticati: in quel caso gli ho proposto di spendere di meno e di avere due risorse in più. E ha avuto un anno di tempo per toccare con mano che quegli 80mila euro non erano un costo ma un investimento, perché hanno fatto crescere il patrimonio di competenze interne”.
Firenze, Bologna, Roma. La sua sezione del Festival delle Generazioni denominata ‘Il futuro è già ieri’ ha un obiettivo tanto nobile quanto ambizioso. Vuole mettere in connessione persone anagraficamente distanti affinché gli uni imparino dagli altri in un processo di fruttuosa contaminazione. Ma un evento fisico, spesso, ha una portata ristretta. Come vede evolvere questo Festival nel futuro per intercettare l’attenzione di una platea più ampia? Sempre che questo sia uno degli obiettivi, s’intende.
“Vero. Il pubblico che si può raggiungere è comunque limitato rispetto all’immensità del problema: generazioni spaccate dall’evoluzione digitale e dai nuovi modelli comportamentali. E questo la Cisl, o meglio la FNP (Federazione Nazionale Pensionati) Cisl, organizzatrice del Festival, lo sa benissimo.
Ma il Festival e la mia sezione in particolare, quella più sperimentale, vogliono essere l’occasione propositiva per il consolidamento, nella quotidianità operativa di un importante corpo intermedio quale il Sindacato, di politiche di integrazione generazionale. Gli eventi che ho progettato e gestito finora (26 in quattro anni) sono in realtà dei prototipi replicabili, estensibili, personalizzabili a livello territoriale fino a iniziative continue e permanenti, sfruttando anche le possibilità offerte dal digitale. Certo non è un processo semplice e scontato, ma credo che il Sindacato abbia proprio bisogno di questo: ripensarsi su nuove modalità di approccio alle generazioni culturalmente più distanti.
Nell’ultima occasione, giugno di quest’anno a Salerno in collaborazione con Salerno Letteratura, gli ultimi due eventi che ho coordinato (‘Ma in che Web viviamo?’ e ‘Consonanze e assonanze: come nasce un rap’) hanno avuto un pubblico davvero intergenerazionale: quello delle Summer School (14-19 anni) e pensionati anche ottantenni. Straordinaria la partecipazione emotiva: l’incontro con i due rapper, che affrontavano temi socialmente molto sensibili, avrebbe potuto andare avanti all’infinito.
Quanto al futuro del Festival in generale, credo che la strada sia quella di fare sempre più rete con altri Festival concettualmente limitrofi, integrando, scambiando e ibridando eventi in una programmazione più coordinata: sono totalmente d’accordo con Mimmo De Masi quando dice che i Festival sono forme di Università diffusa, ma l’eccesso di iniziative sta già creando problemi di frammentazione e sovrapposizione in un’agenda nazionale fittissima”.
Dal novembre 2016 è tornato in aula come co-docente del corso di ‘Comunicazione per il management d’impresa’. Head hunting in cerca di giovani talenti o eterna passione nel condividere conoscenza con le nuove generazioni? O magari è un mix delle due cose.
“La precedente decennale esperienza alla Sapienza (2003-20013) era stata molto motivante sia per ‘Comunicazione Interna’ sia per ‘Pianificazione dei Media’. In dieci anni ho portato in aula una quarantina di aziende (dalla Fiat alla Nike, passando per Vodafone, Enel, Microsoft, Eni, Procter & Gamble, Ferrero…) a raccontare le loro politiche di comunicazione organizzativa o la logica delle loro strategie pubblicitarie; preparando per tempo gli studenti a rubare il mestiere (credo sia il corrispondente di ‘attaccare le competenze’).
Da quelle aule sono usciti professionisti/e che, già oggi, ricoprono ruoli significativi. Lo dico con orgoglio, ma con la consapevolezza che sono io a essergli grato per primo: dal confronto con le loro visioni, le loro scelte, le loro passioni, la loro digitalità, le competenze diverse, ma anche le loro insicurezze, carenze, frustrazioni ho avuto stimoli enormi. Di più, ho imparato delle cose.
Con questo spirito e la visione di un’aula universitaria che, come luogo del sapere, deve condividere oggi tale condizione con una molteplicità di luoghi e di occasioni, sono tornato dall’anno scorso alla Sapienza. Consapevole di tutti i problemi del sistema universitario, ma reputando il rapporto con gli studenti e i colleghi una straordinaria occasione di costruzione di senso.
Pronto proprio per questo ad osservare, sotto il profilo formativo, comunicativo, lavorativo, ogni nuova forma di vitalità imprenditoriale; e a osservarla da vicino. Per questo vi sono grato di ospitarmi nella vostra prossima iniziativa come Digital Combat Academy: una bella occasione per vedere all’opera la relazionalità dei ‘californiani’ nazionali”.
Concludiamo con una riflessione che potrebbe apparire astratta – sebbene non lo sia per nulla. Cos’è l’intelligenza emotiva per lei e che ruolo le assegna nello sviluppo di una carriera di successo?
“Quando il concetto di intelligenza emotiva non era stato ancora elaborato, negli anni ’70 Federico Caffè diceva: ‘Ci sono persone che hanno la capacità di saper fondere intelligenza ed emotività, sì hanno come un’intelligenza delle emozioni’. E quel grande filosofo di strada di Nando der Gazometro (‘un cazzaro riflessivo’ si autodefiniva) distingueva gli intelligenti in ‘intelligenti veri’ e ‘intelligenti e basta’; questi ultimi condannati alla infelicità.
Io penso che l’intelligenza emotiva sia innanzi tutto consapevolezza funzionale: identificare, riconoscere e gestire le nostre emozioni ma anche comprendere e tenere conto delle emozioni degli altri. Inevitabile che questo abbia un ruolo nel successo di un individuo. Soprattutto in tutti i mestieri a forte relazionalità.
Ma sinceramente devo dire che conosco persone di grandissimo successo, che non sono degli intelligenti emotivi, e che hanno basato tutto il loro percorso su una razionalità estrema, perfino spietata; e spietata, prima di tutto, con sé stessi. Un successo mai appagante, mai goduto, privo di felicità: il successo degli ‘intelligenti e basta’, appunto.
A mio parere l’intelligenza emotiva non è quindi una condizione imprescindibile per il successo lavorativo; ma è lo è sicuramente per una conciliazione vincente tra obiettivi esistenziali e obiettivi professionali. Insomma per vivere la vita”.