Marco Ronchi, alla scoperta del CEO di Twig tra grinta, positività e visione
45 minuti. Questo è il lasso temporale che impiegano persone di valore a conoscersi, scambiarsi vibrazioni positive e gettare i semi di una relazione umana e professionale che potrà tranquillamente proseguire per sempre.
45 minuti. Questa è il tempo che abbiamo avuto per conoscere la prima volta Marco Ronchi – e la sua collega Giulia Sormani – nell’accogliente sede di Twig in zona Isola, a Milano.
45 minuti. Sono bastati per avere un solido assaggio della grinta, della positività e della visione di un imprenditore che conosce il digitale dal punto di vista privilegiato dello stratega navigato e del formatore empatico.
Marco Ronchi è infatti il CEO di Twig – la seconda agenzia del suo percorso imprenditoriale – e anche Managing Partner del Master in Digital Strategy presso il Politecnico di Milano, non esattamente l’ultimo degli atenei.
Giocando a fare spoiler, ci sono due passaggi in particolare della sua intervista che vi potrebbero colpire – alla mente e al cuore.
Il primo passaggio è quello in cui Marco dice essere stato fortunato. È l’umiltà dei bravi, di chi sa che la fortuna esiste, vero, ma che aiuta soprattutto gli audaci che hanno saputo osare al momento giusto.
Il secondo passaggio è quello in cui Marco sostiene che fare impresa e formazione equivalga a fare politica. È la consapevolezza dei responsabili, di chi sa che conquistare una vita felice è importante, certo, ma se si genera anche un impatto positivo sull’esistenza degli altri la vittoria diventa collettiva.
Parola al protagonista di questa storia, Marco Ronchi.
Alcuni talenti sviluppano la propria comprensione del mondo lavorativo da autodidatti, altri seguono il corso prestabilito delle cose con esperienze universitarie in Italia o all’estero. Tu cosa ti sei riportato a casa dalla tua esperienza Magistrale presso il Politecnico di Milano?
“Innanzitutto mi ha insegnato l’attitudine a costruirmi un mio metodo, diffidando dei ‘7 tips for’ o “lascia qui il commento che ti do la ricetta per diventare un figo”: la cosa più importante che qualcuno mi abbia mai donato, perché mi ha permesso di fare scelte sensate nonostante la maggior parte di quelli che conoscevo cercasse di fare soldi accorciando le tappe di un percorso che neanche aveva una direzione di mercato chiara.
Poi lo spazio per poter sperimentare ciò che per molti rimaneva sui libri di testo: la Scuola del Design è una Facoltà estremamente concreta, progettuale e votata al lavoro di squadra, fattori che mi hanno aiutato a strutturare il mio primo gruppo di lavoro già a 22 anni.
Infine la fiducia: due giorni dopo essermi laureato, Marisa Galbiati – Vice Dean della Scuola del Design, mi chiese di entrare a far parte del gruppo di ricerca Imagislab per portare un po’ di digital nei corsi di laurea. Devo moltissimo a lei, a Francesca, Katia, Mariana, Simona, Giulia, Walter, Ilaria e tutti coloro con cui sono cresciuto lì dentro in questi anni.
È un gruppo che ha sempre creduto che discipline come la Digital Strategy meritassero di essere inserite nel piano didattico dal basso, ovvero da chi quotidianamente se ne occupava per il mondo delle imprese, molto prima che si parlasse di trasformazione digitale”.
Anche nell’approccio al primo impiego esistono diverse strategie. C’è chi si tuffa nel mondo dell’imprenditoria sin da subito, e chi matura esperienza in azienda prima di staccarsi e fondare la propria realtà. Come si è sviluppato il tuo percorso prima di intraprendere la via dell’impresa, e quando hai realizzato di voler correre nel lavoro da Founder anziché da dipendente?
“Penso che la scelta più difficile per qualcuno che ama una disciplina e vuole farla diventare il proprio lavoro, sia rispettare la propria identità. Diciamocelo, non è facile, questo è un settore dove sono più quelli che parlano e che vendono, di quelli che fanno. E se cresci seguendo i tuoi influencer, molto fa l’immedesimazione che si crea tra le tue aspettative e la direzione che loro ti propongono.
Io ho avuto una fortuna: quando studiavo, non esistevano gli influencer. O meglio, c’erano pochi ‘esperti’, c’erano decine – non centinaia di siti su cui informarsi, si usava un po’ LinkedIn ma la verità e che erano di più quelli che facevano, di quelli che parlavano o vendevano. Quindi, con tutto questo spazio a disposizione, cosa ho fatto?
Non ho scelto la scatola che doveva contenermi, ho scelto il contenuto: non è stata una cosa razionale, a 22 anni ho aperto quasi per gioco la partita iva. Non sapevo cosa davvero volevo dalla vita, e quello era il mio approccio: prima facevo, spesso male e sbagliando di tutto, poi decidevo se mi andava bene.
Sono partito con poco, qualche sitarello di aziende di genitori di amici, per poi crescere con le prime strategie digitali, e approdare con il mio primo team a una gara per una multinazionale come Bayer: quando abbiamo scoperto che avevamo vinto, in 48 ore abbiamo dovuto fondare una società. Ed è cominciato tutto, a 24 anni. Di fatto, non ho scelto il percorso: ho lasciato che fosse il percorso a scegliere per me. E ho avuto fortuna.
Penso, quindi, che il trucco non sia solo di fare al meglio ciò che sai fare, ma che si tratti anche – e soprattutto, di costruire le opportunità per far sì che le cose succedano. E lì non bastano i libri e i consigli degli influencer, serve il tempo: che poi tu finisca in un’agenzia quotata, in un’azienda blasonata o in un gruppo di amici, a fare la differenza sei e sarai sempre tu”.
Molti giovani startupper si lanciano nel mondo dell’imprenditoria unicamente per non avere un capo, ma non capiscono la complessità di dover gestire un’azienda. Collaboratori, clienti, tasse. Accompagnaci nella comprensione di questa complessità. Di cosa si occupa Twig oggi, e in cosa si distingue dalla tua Greylab del passato?
“È una domanda che contiene un mondo fatto di equilibrio tra ciò che tu hai da dare al mercato, e ciò che il mercato ha da chiedere a te. Quando lavori, non ci vuole molto a capire che il prodotto da solo non basta a risolvere questa relazione. Parti dal presupposto che io sono un designer che oggi, dopo 14 anni di attività professionale, passa molto più tempo a gestire persone, strategie imprenditoriali e problemi relazionali che a fare ciò per cui ha studiato. Ho smesso di fare il mio lavoro? No, ho forse accettato dove mi ha portato la mia carriera. Sto perdendo competitività professionale? Neanche per sogno. Ho avuto probabilmente la lucidità di aggiornare la mia visione a dove mi ha portato.
La mia prima gara è stata vinta con Greylab, un’agenzia creativa che si occupava di media e contenuti digitali, e oggi vinco (e perdo) gare con Twig, un’agenzia di strategia digitale che lavora su aziende in trasformazione: è cambiato il mercato e la sua domanda, sono cambiato io e buona parte delle persone con cui lavoro. A partire da Andrea, Neva e Matteo, i miei attuali soci in Twig, che hanno raccolto una sfida per cui non c’era alcuna garanzia di riuscita.
Sono convinto che una base fondamentale di questo mestiere sia non attaccarsi a ciò che si è conquistato, ma continuare ad anticipare il più possibile i trend e i bisogni delle aziende. E questo ti obbliga a essere come gli squali, che per non morire si muovono anche quando dormono. Ma la cultura imperante è quella di massimizzare profitti e tempo, che rappresenta esattamente il comportamento opposto, quello delle iene.
Tu citi qualche start-up, io potrei aggiungere qualche razza apparentemente evoluta di marketer: spesso si cerca la strada più veloce per massimizzare guadagni e tempi, con la convinzione che sia una scelta smart o agile o trendy. In realtà, si sta massimizzando il guadagno in un acquario dove i pesci stanno già finendo, e a mio personalissimo parere si sta assottigliando la cultura del lavoro che ha reso rispettabile questo Paese.
C’è una differenza fondamentale tra costruire una realtà al di là del prodotto che vendi, e costruire un mercato intorno al prodotto che vendi: mancano le persone oltre a quelle che si dividono gli utili. Se sei una start-up basata esclusivamente su un’intuizione e domani il tuo mercato subisce un tracollo dettato dalla guerra tecnologica tra Cina e Stati Uniti, se hai una visione al di là del tuo prodotto, un direttivo con le palle, un team che si fida di te come persona e una struttura pronta a scalare in un’altra porzione di mercato forse te la cavi. Altrimenti muori ed entri a far parte di quella netta maggioranza di start-up che fa meno di 30 mila euro all’anno di fatturato.
Se sei un marketer il cui modello è spremere contatti sfruttando i buchi del sistema di Zuckerberg, nel momento in cui la guerra tra l’Europa e Facebook finisce male, tutto il tuo modello di business crolla perché tu sei dipendente da una, due, massimo tre piattaforme.
Cosa serve quindi avere una struttura ‘human driven’? A generare valore al di là di ciò che vendi. E ad avere una visione che contribuisca a migliorare il mondo. Altrimenti – al di là di quanto fatturi e di quanti follower hai oggi, domani sarai il primo ad aver generato ‘fuffa’”.
Il Politecnico di Milano rappresenta una costante nel tuo percorso di vita. Sia perché ti ha formato ai tempi dell’Università come Studente, sia perché ti ha riaccolto a braccia aperte come Docente e ti ha permesso di essere prima founder, poi direttore e oggi managing partner del Master in Digital Strategy. Cosa ti ha spinto ad imbarcarti in questa avventura accademica e quali reputi essere i punti deboli della concorrenza in questo settore?
“Ho scelto il Politecnico di Milano perché i professionisti con cui lavoro non decidono quando una persona deve crescere, ma lasciano crescere la persona quando è il momento che succeda. In un Paese come l’Italia, questo è un miraggio. A Milano, è un’opzione percorribile, perché la geografia ha avuto un ruolo centrale in questo passaggio della mia vita. Sono nato e cresciuto in una città dove succedono cose, anche senza che qualcuno decida che devono succedere, e dove le aziende arrivano perché spinte dal bisogno di professionalità e positività. Si respira una buona aria, a Milano come al Politecnico, e questo è un fattore fondamentale come in ogni strategia di marketing: il contesto fa la differenza.
Per quanto riguarda i punti deboli della concorrenza, ci credi che non ho ancora capito chi sia la concorrenza? Se la base dello spirito critico è la costruzione di un puzzle, ciò che di meglio ogni prodotto formativo ha da dare, è unico nel suo genere perché compone la tua visione del mondo.
Ho però due consigli da dare a chiunque deve scegliere un percorso formativo: in primis, il ‘fil rouge’ tra i docenti, perché un conto è un prodotto formativo fatto di comparsate ultra-blasonate, un conto è un percorso formativo dove il direttivo sceglie persone che condividono la stessa visione e lavorano con metodi anche diversi, ma su un fine comune.
In secondo luogo l’attenzione per le persone e per il proprio contesto di crescita: ciò che sei non è ciò che impari, ma dove vuoi arrivare e con che grado di protagonismo, e in questo io ho una collega formidabile, Giulia Sormani – attuale Direttrice Tecnica del Master in Digital Strategy – il cui lavoro è accompagnare le persone in un percorso di crescita umana, oltre che professionale, per valorizzare ciò che sono e per collegarlo a ciò di cui il mercato oggi ha davvero bisogno”.
Abbiamo parlato del passato, abbiamo fotografato il presente, ora volgiamo lo sguardo al domani. Un imprenditore è una persona che ha una visione e vuole realizzarla, portarla a terra. Come vedi evolvere nei prossimi anni la tua agenzia di strategia digitale e il tuo Master al Politecnico di Milano?
“Ti direi come sono nati, spinti da ciò che il mercato ha bisogno qui e ora, con un’attenzione spasmodica alle persone e al contesto culturale del nostro Paese. Io credo che, in un momento di profonda crisi valoriale del sistema occidentale, fare impresa e formazione equivalga a fare politica.
Nel fare impresa, tocchi tutti gli ambiti di cui senti parlare alla televisione, ma li vivi in prima persona e capisci, al di là di tutto, quanto ci sia di profondo nel costruire valore intorno a e per le persone. Nel fare formazione fai cultura e lavori sulla prospettiva a medio lungo termine, disinnescando i veleni più malefici della nostra società: l’ansia, l’invidia, l’avversione.
Dove vedo quindi queste due stupende realtà? Sempre meno in lotta per una posizione, sempre più vicine alla coopetizione. Con realtà come la vostra, ad esempio, che rappresentano per me un competitor solo se mi chiudo in una visione miope e alquanto povera della realtà. Con agenzie che lavorano in ambiti affini ai nostri, con cui abbiamo innescato progetti di Open Innovation e Co- Design impossibili se mi fossi preoccupato di ‘come mi avrebbero poi potuto fregare i clienti’.
Questo Paese ha bisogno di declinare l’innovazione nella quotidianità, e per farlo servono persone con le palle: un’eredità povera lasciataci dal trentennio precedente. C’è infatti chi fa business, c’è chi fa rete e c’è chi fa sistema: la vocazione di Twig e del Master in Digital Strategy è quella di fare sistema.
Che lo si chiami Sistema Italia, o in qualsiasi altro modo, spetta a noi risollevare le sorti di questo Paese. A volte, semplicemente con incontri come il nostro: Roma chiama Milano, Milano sorride a Roma. Che bello pensare che un giorno sarà così per tutta Italia”.