Luca Barboni, Bibbia Vivente sul Growth Hacking della Silicon Valley

È raro che un professionista possa conquistare l’immaginario di un’intera disciplina. Eppure, in tema di Growth Hacking, Luca Barboni è il nome da seguire

La storia della comunicazione insegna che ogni epoca ha la sua disciplina sexy. Una disciplina è sexy quando tutti ne parlano e tutti la vogliono – ma tendenzialmente pochi la capiscono.

L’hype generale intorno alla disciplina crea le premesse per una pletora di wannabe specialisti. Improvvisamente saltano fuori corsi di specializzazione, agenzie dedicate, consulenti tirati a lucido. E mentre pochi, pochissimi, portano avanti la disciplina con cognizione di causa tutti gli altri ne demoliscono la credibilità per manifesta incompetenza. È successo in passato con il web marketing prima e con il social media marketing poi.

Facendo un tuffo nel presente, risulta evidente a chiunque abbia occhi e orecchie per ‘seguire la conversazione sul digitale’ che la disciplina sexy del 2017 sia il Growth Hacking. Per fortuna della Digital Combat Academy colui che rappresenta il simbolo di questa disciplina in Italia ha accettato di insegnare nei nostri Corsi in Aula.

Non rappresentiamo la piazza più verticale per la sua materia di riferimento, dato che insegniamo Marketing Digitale, e al momento non siamo neanche la scuola che può garantirgli il compenso più elevato. Eppure – e qui non c’entra la fortuna – avevamo intuito mesi prima di fondare la scuola che il nome da coinvolgere fosse proprio lui. Sapevamo che i suoi insegnamenti sul Growth Hacking sarebbero caduti a pennello dopo 7 lezioni verticali sul Marketing Digitale. La sua umanità l’ha portato ad accettare, e non possiamo che esserne orgogliosi.

Il talento in questione è – rullo di tamburi – Luca Barboni, bibbia vivente sul Growth Hacking della Silicon Valley. Ha lavorato in Italia e all’Estero, ha assaporato il contesto futuristico e visionario di Amsterdam & San Francisco, sia nei panni del tecnico che dell’imprenditore. Come se non bastasse, ha scritto il primo libro sul Growth Hacking in Italia insieme a Federico Simonetti.

Il fatto, poi, che avesse anche un background marziale di brazilian jiu-jitsu ha reso il suo ingresso come Docente nella nostra scuola una combinazione perfetta.

Dire che sia un onore averlo in squadra non renderebbe l’idea. Dunque vi lasciamo alla sua intervista, corposa ma puntuale, in cui potrete tracciare tutti i segnali tipici del talento unico nel suo genere. Visione d’insieme, chiarezza espositiva, mentalità internazionale. Benvenuto, Luca.

Psicologia, Sapienza – Università di Roma. Questo è quello che recita l’inizio del tuo profilo LinkedIn. Di anni ne sono passati da quel 2013 in cui terminasti il percorso di studi, e di cose ne hai fatte tante nel frattempo. Col senno di poi, cosa pensi ti sia rimasto di quell’esperienza universitaria?

“Mi sono rimasti senza dubbio due elementi: il senso critico e l’empatia.

Uno dei primi concetti che assorbi quando ti addentri nelle scienze psicologiche, è che la tua mente è molto lontana dall’essere una macchina perfetta. Questo significa fondamentalmente che non puoi fidarti di te quando si tratta di interpretare la realtà. E questo è un pensiero valido nel gestire le relazioni tanto quanto lo è per il business. Proprio perché so di non sapere, ricerco feedback: solo grazie a questi dati posso imparare, adattarmi, e prendere decisioni informate.

Quando ascolto imprenditori o marketer dire ‘me lo sento’, io tremo di paura. ‘Secondo me’ è la premessa perfetta per una catastrofe. 🙂

L’empatia invece riguarda l’aspetto finalistico e motivazionale del nostro comportamento. Io essere umano faccio x spinto da un motivo y. Se non sei in grado di intuire queste motivazioni grazie all’empatia, cambia mestiere. Solo riconoscendoti nell’altro puoi capire come allineare la tua comunicazione ai suoi obiettivi, i suoi valori, i suoi gusti, e avere uno scambio positivo per entrambi.

Sai quando si dice che il marketing fatto bene è quando ‘non te ne accorgi’? L’empatia è l’unica vera chiave per questo tipo di esperienza”.

L’Italia ti conosce per tanti motivi, ma uno in particolare. Tu sei un Growth Hacker e in quanto tale rappresenti con orgoglio la disciplina in Italia. In questo settore ci lavori, eroghi consulenza, organizzi eventi, scrivi libri e insegni. Partiamo allora da un concetto facile per introdurre la tua professione ai più. Quale è la differenza tra un Growth Hacker e un Digital Marketing Manager?

“Ci sono almeno 3 modi di vedere il Growth Hacking, e altrettante differenze che lo separano dal Digital Marketing.

  • Il Growth Hacking è un mindset.

Quando si parla di mindset si fa riferimento alla componente “hacking” in senso lato.

Qual è questo approccio hacking? Fissato un obiettivo chiaro, ricercare soluzioni non convenzionali che ci facciano avere dei vantaggi competitivi rispetto agli altri. Ovvero mettere il modus operandi in secondo piano rispetto all’obiettivo, e non dare nulla per scontato.

Questo può significare diverse cose:

1) fare qualcosa che nessuno ha mai fatto, come investire per diventare predominanti su un canale prima che i competitor capiscano come funziona.

Es. è uscito Linkedin Video. Il primo che riesce a diventare mega-social-influencer con i Linkedin Video si godrà costi di acquisizione scontati per il prossimo anno. Il suo clone un po’ meno, il clone del clone un po’ meno, e così via.

2) Automatizzare tutto l’automatizzabile per scalare velocemente qualcosa che è stato dimostrato, in piccolo, funzionare. Per questo spesso si parla di strategie borderline oppure di marketing tecnico, associandoli al growth hacking.

Es. messaggi diretti su Instagram scritti a mano alle prime 300 persone, quando si hanno metriche positive si programma un bot che faccia lo stesso raggiungendo il doppio delle persone nella metà del tempo.

Che differenza c’è col mindset del Marketing?

Che nel Marketing chi agisce in questo modo verrebbe visto come un “genio creativo”. Un’eccezione. (anche un po’ una botta di culo?) Nel Growth Hacking invece, nato nel mondo delle startup dove per definizione c’è scarsità di risorse, questa ricerca continua della strategia laterale è proprio il punto di partenza essenziale, e per questo viene messo a sistema.

Messo a sistema come? Grazie al Punto 2.

  1. Il Growth Hacking è un processo.

Non è corretto paragonare il Growth Hacking alla SEO. Nemmeno ai Social Media. Nemmeno al Content Marketing. Il Growth Hacking si muove allo stesso livello dello SCRUM, dell’Agile, del Lean, e del Design Thinking.

Es. lo SCRUM è un metodo specifico per fare Project Management

E in questo senso il Growth Hacking è un metodo specifico per fare Marketing.

Infatti nella pratica, il Growth Hacking è un processo di lavoro. Perciò è costituito da documentazione, gestione del lavoro e del team.

Le storielle che si sentono in giro (i cosiddetti ‘growth hack’) sono il prodotto di quel processo. Ma il vero Growth Hacking sono i meeting, le metriche, i test falliti a porte chiuse che ci sono stati dietro per mesi e mesi prima di uscirsene con la strategia che funziona.

E non si tratta solo di fare analisi dei dati, ci sono degli step ben precisi!

Es.

– quando fai digital marketing, come fai a generare idee per nuove strategie da proporre al cliente?

Nel GH c’è un momento e un sistema preciso.

– quando fai digital marketing, come fai a confrontare una possibile strategia con l’altra, fino a scegliere quale vale la pena proporre? Quali parametri usi per farlo?

Nel GH c’è un momento e un sistema preciso.

– quando fai digital marketing, come fai a progettare dei test, con relativo budget, per cominciare a mettere in pratica le suddette strategie? E se i test riguardano il prodotto e non il funnel di marketing?

Nel GH c’è un momento e un sistema preciso.

– quando fai digital marketing, con che metodologia raccogli risultati, li analizzi e prendi decisioni?

Nel GH c’è un momento e un sistema preciso.

– quando fai digital marketing, e una strategia funziona, come gestisci la manutenzione, l’ottimizzazione, o la condivisione delle informazioni col team?

Nel GH c’è un momento e un sistema preciso.

Io non conosco le risposte dei Digital Marketing Manager italiani a queste domande.

So solo che saranno sicuramente molto diverse tra loro, o magari potrebbero non esserci affatto.

Ma per il growth hacking tutto si basa sul ripetere questo processo usando la creatività come input, i dati come output, e ottimizzando in maniera rapida e sistematica, ripetendo questo ciclo con degli sprint.

Per questo esiste un iter e dentro a ogni step ci sono dei framework di supporto, andando a filtrare, prima col team e poi sul campo grazie ai test e ai dati generati, cosa funziona.

E poi, tra quello che funziona, cosa porta un x2 e cosa porta un x10.

Da qui si adatta allocazione del tempo e del budget di conseguenza.

  1. il Growth Hacking come movimento,

L’esigenza di Sean Ellis, che ha coniato il termine ‘Growth Hacker’ 7 anni fa, era quella di distanziarsi da quell’aura di marketing per grande aziende pomposo e inefficace. Focalizzato sulla brand awareness, su PR dal dubbio ritorno, su media buying a lungo periodo senza un controllo sul ritorno dell’investimento. E di dare invece un’identità precisa al suo approccio al Marketing per le startup tecnologiche.

So queste cose perché l’ho conosciuto ad Amsterdam l’anno scorso.

Da quel momento l’articolo galeotto ha generato un vero e proprio movimento.

Tanti professionisti si sono ‘destati’ riconoscendosi nei suoi principi, tra cui: l’attenzione allo sviluppo del prodotto, al lavoro sinergico tra i dipartimenti, al condurre tanti brevi esperimenti ciclici piuttosto che strategie a lungo termine, all’analisi dei dati qualitativi e quantitativi, e ad una costante innovazione nella scelta delle strategie da perseguire.

Questo ha portato al ri-posizionamento di tanti professionisti che hanno abbracciato questa nuova identità e questo metodo di lavoro, dando vita alla prima generazione di ‘Growth Hacker'”.

Viaggiare tanto significa espandere la propria comprensione del mondo. Tu di contesti esteri ne hai visti e vissuti, pensiamo in particolare a Italia, Olanda e Stati Uniti. Quali sono le differenze culturali tra questi Paesi in termini di Growth Hacking?

“Si tratta di ecosistemi a diversi stadi di maturità. Nascendo in ambito startup, la diffusione del Growth Hacking difficilmente prescinde dallo sviluppo di questa area imprenditoriale. Negli Stati Uniti (e parlo solo di Silicon Valley, perciò West Coast) il Growth Hacking è stato completamente riassorbito nelle buone pratiche del Digital Marketing, e viene insegnato regolarmente come parte dei programmi formativi dei più grandi acceleratori al mondo: YCombinator, 500startups, ecc. Semplicemente se non conosci questa metodologia sei un incapace.

In Olanda siamo in fase di massimo hype: da qualche anno è stata fondata Growth Tribe, accademia di growth hacking, per formare i marketers del futuro. L’anno scorso ho vissuto due mesi ad Amsterdam proprio per seguirli ed è un team super-sveglio che mette in contatto studenti, startup e corporate. Questo è il bello di Amsterdam: si percepisce come ogni aspetto dell’ecosistema stia lavorando in sinergia per promuovere l’imprenditoria e l’innovazione. Spazi garantiti dal comune, corporate come ING che sponsorizzano ogni singola attività sul tema, banche aperte alla discussione, VC che stimolano giovani imprenditori a crescere, scuole di formazione su temi d’avanguardia come l’Intelligenza Artificiale per il Marketing. L’unico aspetto negativo di questo ‘boom’ del Growth Hacking è che questo trend sta creando un oceano rosso di ‘agenzie di growth hacking’ che assomiglia molto al contesto nostrano per le digital agency qualche anno fa. Così come il Digital Marketing si è approfittato dei fallimenti del marketing tradizionale, il Growth Hacking (e in generale il mindset startup applicato a contesti aziendali) si sta approfittando dei fallimenti del digital marketing per farsi spazio nel mercato.

Il panorama italiano invece si trova ancora all’inizio della salita nella curva dell’hype. Quello che vedo è che la fase di evangelizzazione del mercato sta pian piano scivolando nella fase di formazione di nuove risorse che sappiano applicare questa metodologia. Comincia a decadere lo scetticismo e cominciano a spuntare professionisti preparati capaci di portare risultati. Nel nostro paese purtroppo abbiamo diverse barriere a rallentare il tutto: l’ostilità verso la lingua inglese, la trasparenza dei dati che spaventa chi non lavora basandosi sulla performance, e una mentalità imprenditoriale antiquata che preferisce affidarsi a dei guru o a professionalità prettamente operative, tralasciando l’importanza della visione, dei processi e della strategia (che sono l’unica cosa a fare la differenza nel lungo termine)”.

Da un punto di vista culturale, il digitale pare contrapporsi idealmente alla carta stampata. Eppure, fermare i concetti con la lettera scritta, spesso, consente di assimilarli meglio. Ci sono libri in particolare che hanno positivamente influenzato la tua carriera, o quantomeno il tuo modo di vedere il mondo?

“Assolutamente sì! Leggere per me è letteralmente una forma di accelerazione. Per questo cerco di tenere una media di un libro letto a settimana. Tra i libri che mi hanno più influenzato c’è sicuramente ‘The Lean Startup. Spesso lo consiglio come ‘La Bibbia del Non-Fare-Ca***te’ ed è il mio primo consiglio di lettura per qualsiasi ragazzo che voglia affacciarsi alla prima esperienza di startup. Un altro libro che mi ha guidato molto è ‘Tribes: we need you to lead us di Seth Godin, sull’importanza delle community, sull’aggregare persone attorno ad una missione, e sul guidarle scambiando valore e creando connessioni. Però devo dire che il libro che forse mi ha influenzato di più è ‘L’Arte della Guerra di Sun Tzu (letto durante il liceo). Sin da piccolo ho sempre visto la strategia come una specie di super potere. Con la strategia posso ottenere quello che voglio, senza la strategia, ottengo al massimo quello che capita. E ancora oggi, ad anni di distanza, mi rendo conto che alcuni di quei principi guidano inconsciamente le mie decisioni. Insomma Sun Tzu mi ha trasformato in un Machiavelli con il pilota automatico :)”.

Di recente sei stato a San Francisco con la tua startup nel percorso di accelerazione di 500 Startup. San Francisco e 500 Startups rappresentano semplicemente la vetta più alta nel mondo delle imprese digitali. Condividi con noi le 3 lezioni principali che senti di aver acquisito oltreoceano.

“Lezione N°1: vendi sempre.

Scordati la modalità On/Off dal lavoro. Non sei un impiegato alle poste, sei un imprenditore. Devi stare sempre sul piede di guerra.

  • Hai pronto un pitch di te stesso da 30 secondi / 1 minuto / 3 minuti?
  • Se ti chiedessi quali sono state i tuoi maggiori successi sapresti elencarmeli al volo? E i fallimenti che per te sono state lezioni importanti?
  • Hai pronto un pitch della tua azienda da 30 secondi / 1 minuto / 3 minuti?
  • Hai una scorta di biglietti da visita sempre (SEMPRE) a portata di mano?
  • Quando vai ad un evento di networking, fai un check sugli invitati per scegliere con chi parlare?
  • Sai abbandonare con eleganza una conversazione se qualcuno si accolla per tutta la serata?
  • Quando lasci l’evento fai followup ai contatti raccolti entro 24ore?

Questi sono solo alcuni degli elementi che distinguono un CEO che fa il suo mestiere da uno che aspetta il finanziamento per farsi la piscina in giardino. Specie quando parliamo di ecosistemi piccoli e densi (come in Silicon Valley) nuove opportunità sono dietro ogni angolo.
Dipesh, un mio caro amico, ha conosciuto il CTO global di Coca Cola mentre stava in fila ad un ristorante coreano. Ci ha chiacchierato giusto 30 minuti. Ora questo signore gli fa da mentor gratuitamente dedicandogli una call a settimana.

Vendi sempre.

Lezione n°2: il timing è tutto.

Quando si parla di crescita (e io ne parlo un bel po’) spesso si dà troppo peso alla parte di aumento delle metriche e troppo poco alla parte di ottimizzazione del tempo. Se ci pensi “crescita” è un prodotto di risultati x tempo. Se ti dico che ho 12 milioni di utenti per la mia app B2C, ma li ho ottenuti in 10 anni, non sono poi così brillante per i canoni da startup. Se ti dico che ne ho 12 milioni dopo solo 2 anni di lavoro, è un’altra storia.

Specie quando parliamo di startup early stage, con team da 5-6 persone, saper prioritizzare le opportunità e saper gestire il tempo sono le skill n°1 per avere successo (ovvero arrivare alla fase successiva).

Sembra facile, ma la realtà delle cose è che la giornata di un founder è piena di distrazioni. In America si chiama ‘Fake Work’, ‘Falso Lavoro’. Ovvero tutte quelle attività che non hanno un reale impatto sulle metriche per cui il tuo business sarà giudicato degno o meno di fare il salto di qualità. Eventi di networking, pubbliche relazioni, meeting di persona, gestione amministrativa, personal branding sui social media, sono tantissime le attività che sembrano essere produttive, ma nella maggior parte dei casi si tratta di tempo che potrebbe essere speso su ciò che conta davvero (es. mandare email che potrebbero generare più vendite).

Per questo entrano in gioco tecniche di mindfulness, time management, accountability partner, assistenti virtuali, outsourcing, metodologie di design thinking, scrum, agile, growth hacking, vale tutto. Anche lo yoga, se ti fa essere più produttivo.

Non è un caso che i founder di startup mangino pizza a pranzo e a cena e siano disposti a fare 5 ore di sonno per anni. Sanno quanto è importante dedicare attenzione al loro progetto per evidenziare un trend in salita.
L’essenza di una startup company è proprio la crescita esponenziale, e il fattore risultati generati durante x tempo speso, deve essere sempre tenuto in considerazione per pianificare il lavoro.

Lezione n°3: Give back

Uno dei motivi principali per cui la Silicon Valley è… beh, la Silicon Valley, è che c’è un fortissimo sentimento di ‘give back’ verso la community. Give back significa ‘restituire’. Essere aperti a condividere le tue scoperte, le tue fatiche, i tuoi punti di svolta, e dare consigli al prossimo, senza chiedere niente in cambio. Puro spirito di condivisione delle conoscenze.

Chiaramente tutto questo si basa su un grande rispetto del tempo altrui. No a telefonate che durano ore, no al pretendere incontri di persona, no a call senza un ordine del giorno, no a richieste di contatto sui social senza un motivo vero.

Quello che va tenuto a mente è che potrebbe toccare a te, prima o poi, di avere qualcosa di utile da raccontare. E che se qualcuno bussa alla tua porta o chiede aiuto, dovresti trovare almeno 15 minuti per dargli una mano.

E fidati: non ha idea di quante cose si possono dire in 15 minuti!”

Noi della Digital Combat Academy abbiamo un’ambizione. Vogliamo averti in aula almeno due volte ogni tre mesi. Eppure, sappiamo bene che i grandi spesso spiccano il volo, e tenerli vicini non è così facile. Andiamo dunque dritti al punto e concludiamo con una domanda semplice e genuina. Luca Barboni quanto vedrà l’Italia da qui al 2022?

“Sarò molto onesto: non sono un patriota, ma amo Roma e amo insegnare. Lavorare con progetti come la Digital Combat Academy e Start2Impact mi permette di incontrare giovani con grande potenziale e dimostrargli che lo storytelling sul mondo del lavoro e della realizzazione personale che ci vendono i media italiani è completamente scollegato dalla realtà. E il mio percorso ne è la prova lampante.

Ma non è una visione distruttiva! Vedo panel di opinionisti preoccupati dall’arrivo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, quando con il carbone, l’elettricità e l’industria è successa la stessa identica cosa.

Non si può combattere il cambiamento. Ma si può farne parte.

Dare ai giovani gli strumenti per farlo, potrebbe essere una missione tanto importante da farmi rimanere in Italia per un altro po’”