Lorenzo Abagnale, un punto di vista illuminato sull’accesso al mondo del lavoro
Lauree, corsi di formazione, stage. Lasciamo la parola al giovane che fotografa in modo brillante le criticità legate all’accesso nel mondo del lavoro
Ci sono tanti modi per entrare nella community della Digital Combat Academy. C’è chi si candida come studente e chi come docente per la scuola. C’è chi si candida come lavoratore o addirittura come investitore per l’azienda. Lorenzo, invece, ha commentato un post sulla nostra pagina Facebook. E lo ha fatto in modo talmente nobile e articolato, che gli abbiamo subito proposto un’intervista, fiutando il valore intellettuale della persona.
Lorenzo Abagnale è un giovane laureato in comunicazione che, dopo aver affrontato diversi corsi di specializzazione e un’esperienza di stage, vive ancora le tante difficoltà legate all’accesso nel mondo del lavoro. Lorenzo mantiene il sorriso, e si dice positivo per il futuro, ma decostruisce in modo chirurgico i problemi postmoderni del mondo universitario e aziendale.
La serendipità è quella forza invisibile che fa accadere cose piacevole per caso. Noi della Digital Combat Academy, per caso, abbiamo avuto l’onore di entrare in contatto con Lorenzo. Il minimo che potevamo fare era dargli un microfono e fare in modo che tutti voi poteste leggere i suoi pensieri.
Il mondo del lavoro avanza, la formazione accademica tradizionale sembra non stare al passo. Rispetto alle Facoltà di Comunicazione & Marketing in Italia, quali aspetti ti senti di condannare e quali di difendere?
“Anzitutto mi preme non polarizzare il mio punto di vista in posizioni estreme, del tipo “pro” o “contro” la formazione accademica in toto. Premesso questo, in base alla mia esperienza ritengo che l’università sia un passaggio indicato per chi abbia voglia di mettersi in gioco per acquisire delle conoscenze principalmente teoriche ad ampio spettro che possano a loro volta venire approfondite in modo più specifico sul piano tecnico, che comunque non viene escluso del tutto: le competenze acquisite sono trasversali e consentono di spaziare in molti ambiti legati ad un settore molto ampio quale quello della comunicazione.
Un corso di laurea, triennale o magistrale che sia, comporta un impegno costante a medio, se non lungo termine, costituito dalla frequenza ai corsi, alle eventuali verifiche occasionali fino al famoso esame, il tutto reiterato per una quindicina, ventina o anche più esami. Lo studio ragionato di un testo in tempi stabiliti e auto-gestiti, la capacità di prendere appunti, il saper assorbire conoscenza da qualsiasi possibile fonte (non soltanto le classiche lezioni frontali ma eventuali convegni, lezioni “extra”, laboratori e quant’altro) e di creare connessioni tra argomenti e discipline, il venire in contatto con docenti stimolanti ed eventuali professionisti del settore, nonché lo stringere rapporti di parità con i colleghi e compagni di studio sono sicuramente aspetti più che positivi. A questo si aggiungono i numerosi project work che permettono di applicare concretamente – e, perché no?, tecnicamente – i concetti studiati. Va da sé che l’esperienza universitaria è a mio avviso molto più stimolante e fruttuosa se si ha la possibilità di frequentare i corsi e di “viversi” il più possibile la struttura e ciò che può offrire.
Gli aspetti che funzionano meno, almeno per me, di sicuro riguardano il saper inquadrare le proprie competenze acquisite e saperle tradurre in un curriculum competitivo. Il che significa saper tradurre l’esame X nella competenza specifica Y così come il mercato del lavoro la cerca. Se l’università fosse una fabbrica, gli studenti la materia prima e gli esami il “processo di trasformazione”, il risultato di output, ossia il laureato, dovrebbe poter già essere in grado di “vendersi” sul mercato come un prodotto di per sé già pronto all’uso.
Che poi la formazione possa continuare anche durante l’esperienza lavorativa o in qualche corso di preparazione all’attività (ad esempio uno stage o un tirocinio propriamente eseguito) è quasi inevitabile, ma la più grande difficoltà che affronto personalmente da laureato triennale e laureando magistrale (con qualche prima esperienza di lavoro alle spalle) è sapermi “confezionare” in modo da rendermi appetibile, saper scrivere sulla mia “etichetta” (il CV) quali sono i miei ingredienti e quali benefici possa portare all’azienda, questo perché ho una ampia infarinatura teorica, molti esperimenti pratici realizzati in itinere ma di esperienze professionali propriamente dette ancora poche.
Se dovessi sintetizzare direi che l’università abitua la mente a creare connessioni e a non ragionare per compartimenti stagni, il che è sicuramente un pregio non da poco. Il problema è che se si vuole accedere ad un livello più tecnico la formazione accademica non sembra sufficiente, per lo meno agli occhi di chi dovrebbe assumerci”.
Ipotizziamo che la Digital Combat Academy abbia la giusta visione del mondo, e che un breve percorso di formazione privata possa completare – senza mai sostituire – il percorso universitario. Raccontaci eventuali esperienze passate, tue o di chi sta vicino, e spiegaci cosa ti piacerebbe ottenere da un ideale corso di formazione.
“Da un ideale corso di formazione mi piacerebbe ottenere tutto ciò che l’università da sola non sembra riuscita a darmi: competenze tecniche specifiche che mi possano far dire “Perfetto! Ora sono un designer/specialista/SEO/sceneggiatore/copywriter/autore televisivo/(eccetera)”, che mi possano far identificare con una o più figure professionali esistenti o nuove (purché sensate e appetibili per il mercato: detesto le etichette anglofone altisonanti che nascondono fuffa vuota o poco consistente) senza timore di vendermi per più o per meno di ciò che sono. Questo non vuol dire eliminare del tutto la teoria ma ottimizzare il più possibile la pratica e magari individuare percorsi specifici per ciascun individuo, attingendo non solo al suo mero percorso accademico ma ad altre eventuali attitudini mostrate in ambiti apparentemente slegati.
L’esperienza mia e di molti come me si potrebbe sintetizzare nell’incapacità di saper “rivendere” quanto acquisito persino nei corsi di alta formazione, questo perché – per quanto mi riguarda – si è nuovamente trattato come l’università di un percorso variegato e diversificato, in grado di aprire la mente a moltissime potenzialità esplorando anche tecnicamente le basi di molti ambiti ma senza approfondirne nessuno. Ciò significa, ad esempio, che conosco la regola dei terzi ma non posso definirmi “fotografo”; che so riconoscere degli accostamenti cromatici che funzionano ma non posso definirmi grafico né designer; che conosco molti elementi di narratologia ma non sono propriamente né scrittore né sceneggiatore; che ho una visione del mercato televisivo da un punto di vista contenutistico, tecnologico, economico e sociologico ma che non saprei da dove cominciare per mettere a frutto queste conoscenze; che conosco moltissimi esempi di comunicazione pubblicitaria efficace ma non sono un copywriter; che conosco la storia del cinema e il suo linguaggio ma non sono un regista; e così via.
Mi considero più un “seme” che, a seconda del terreno di coltura (l’azienda, l’attività svolta, magari previa un minimo di training), potrebbe diventare una qualsiasi di queste “piante” (sceneggiatore, copywriter, grafico, speaker radiofonico e così via). La visione d’insieme, specie nel ramo – anzi, direi più albero – della comunicazione è a mio avviso fondamentale (uno spot pubblicitario può ad esempio essere un condensato di scrittura, sceneggiatura, fotografia, grafica, regia, recitazione e tanti altri aspetti ancora), ma da qualche “foglia” si deve pur iniziare. Ad oggi posso dire che dopo una laurea triennale, tutti gli esami della magistrale ed un intensivo corso di alta formazione, nonché altre esperienze non istituzionali, ho indubbiamente imparato tante cose ma ancora non so definirmi. Sicuramente è un problema anzitutto di autovalutazione, quindi mio personale, e su questo sto lavorando, ma ciò è dovuto anche al non saper tradurre specificamente su carta o a voce ‘ciò che ho studiato (e applicato in molti progetti simulativi, simil-lavorativi o personali)’ in ‘ciò che posso fare per le aziende’.
In sintesi se non riesce l’università mi aspetto che un corso post-laurea funga da interfaccia tra gli allievi e il mondo del lavoro, in modo da favorirne i benefici reciproci. Forse sono già un candidato ideale per moltissime professioni ma semplicemente non lo so ancora, vuoi perché non so che tali professioni esistono vuoi perché mi sottovaluto io. Credo di avere molto da offrire, è che ancora non riesco a organizzare il mio ‘menu'”.
La parola stage nell’immaginario collettivo ha due accezioni. Una positiva, quando implica il primo passo verso l’accesso a un lavoro stabile. Una negativa, quando implica la trappola usata da aziende e scuole private per promuovere un’esperienza al limite dello sfruttamento. Di questi tempi postmoderni, pensi esista il modo di acquisire competenze senza bisogno di passare per uno stage?
“Concordo sulla duplice accezione: la parola stage è per noi neolaureati o neolavoratori croce e delizia, non ripeterò le premesse già sufficientemente sintetizzate nella domanda. Il problema non è lo stage in sé ma capire quale sia la natura e lo scopo di tale stage, lato azienda e lato lavoratore. L’equivoco è tutto lì: lo stage, se inteso come tirocinio, come periodo di apprendistato per apprendere o perfezionare un qualsiasi mestiere, il tutto allo scopo di essere inserito nell’azienda stessa o in un’altra ma nella medesima posizione nella quale ci si è formati, allora ha un senso. Ma se è un altro modo per ottenere manodopera stagionale o comunque a tempo determinato a basso costo, senza alcun tipo di prospettiva di inserimento in azienda, allora è un male strutturale nonché una esperienza fuorviante e, peggio ancora, controproducente.
Faccio sempre questo esempio molto banale, attingendo da uno scenario lavorativo forse d’altri tempi ma concettualmente non dissimile: se divento apprendista fabbro ambisco a diventare un giorno fabbro a mia volta, magari nella bottega del mio maestro o in una bottega analoga. Ma che senso ha imparare a forgiare spade per mesi se poi il mio maestro non mi prende nella sua bottega e al tempo stesso nessuna bottega ha bisogno di altri fabbri? Senza contare che magari mi ero addirittura precedentemente formato come calzolaio, non come fabbro, ma il mercato mi ha offerto solo un apprendistato nella bottega di un fabbro. Conclusione: non sono calzolaio come volevo, non sono comunque ancora fabbro e non ho una bottega dove andare né so con quale qualifica presentarmi.
Nella mia esperienza mi sono sentito un po’ così: a un certo punto sono stato scelto (apparentemente in base al mio CV e ad alcuni test svolti al termine di un corso di alta formazione) per svolgere una mansione che non ho trovato particolarmente coerente rispetto alla mia formazione, ma l’azienda era importante e già solo varcare le sue porte mi è sembrata un’occasione d’oro, per cui non sono stato “choosy”, come direbbe la Fornero, e ho anzi svolto il mio lavoro con il massimo dell’impegno e dell’entusiasmo. Tuttavia lo stage è finito, non c’è stato alcun tipo di rinnovo né di inserimento e mi ritrovo con una esperienza di vita e professionale sicuramente memorabile, formativa e stimolante, ma tecnicamente poco o per nulla spendibile nei settori lavorativi che invece mi piacerebbe percorrere.
Lo stage di per sé non è quindi un male: lo diventa se viene sfruttato in maniera strutturale e sistemica come forma di “assunzione temporanea a basso costo”. In alternativa, qualunque sia l’etichetta che gli si dia, un breve e ragionato periodo di apprendistato tecnico penso sia auspicabile, purché in linea con la propria formazione, le proprie capacità e le proprie aspirazioni e soprattutto purché mirato ad un inserimento e non fine a se stesso. Altrimenti abbiamo il diritto-dovere di essere un pochino ‘choosy’, pena lo svilimento di tutti i sacrifici fatti prima”.
Domanda finale, la più delicata. Ti reputi positivo verso il tuo futuro?
“Ho scelta? Scherzi a parte, attribuisco molto di ciò che mi accade alla mia stessa persona, al mio atteggiamento, alle mie azioni e alle mie scelte. Ho il locus of control interno, se mi è concesso il prestito dalla psicologia. Naturalmente le circostanze influiscono, ma non sono di quelli che non muove un dito attribuendo tutte le colpe ‘al sistema’ (che non vuol dire nulla), alla società, alla crisi e quant’altro. Ciò detto, faccio di necessità virtù, per cui prima ancora che positivo cerco di essere propositivo (verso me stesso) ed attivo.
Piangersi addosso è fuori discussione, la mia vita è questa, il mio percorso sinora è stato questo ed io ora sono questo: ci saranno state scelte giuste e scelte meno giuste, del tempo ben impiegato ed altro apparentemente perduto, non resta che giocare con entusiasmo (che non mi manca) al meglio delle mie possibilità con quel che ho, imparando a riconoscere occasioni potenzialmente interessanti da potenziali perdite di tempo o insidie, andando a formarmi o a perfezionarmi laddove vedo che vale la pena insistere, ma soprattutto riguardare tutto il mio percorso (per nulla lineare e molto atipico rispetto ai miei coetanei, con molte scelte di cui ancora devo comprendere a fondo i benefici e con diverse “deviazioni” che vedo come risorse ma che altri talvolta mi imputano come perdite di tempo) e valorizzarlo, in modo da potermi presentare al meglio a chi offre lavoro o, meglio ancora, in modo da potermi addirittura creare le migliori occasioni professionali.
Credo che se trovi lavoro sei bravo, ma se te lo crei sei ancora più bravo”.
Noi della Digital Combat Academy crediamo in Lorenzo e nei ragazzi come lui. Chi analizza la realtà in modo così illuminato ha le carte in regola per garantirsi una vita ricca di soddisfazione. Si tratta solo di aspettare che la porta giusta si apra per lanciarsi senza paura. A volte per innescare la serie di eventi che porterà alla vittoria basta una persona, una stretta di mano, un commento. L’importante è non mollare mai.
Buona fortuna, Lorenzo.