La Tassazione della Digital Economy

– Articolo a cura di Gianluca Dodero –

Lo sviluppo dilagante delle tecnologie digitali ha permesso la creazione di nuovi modelli di business: l’economia digitale rappresenta, senza dubbio, uno degli argomenti di maggiore attualità e rilevanza.

L’opinione pubblica italiana, infatti, e in generale quella mondiale, dibatte da tempo sul problema della tassazione delle grandi imprese del digitale che fanno profitti in molti paesi del mondo senza avere in quei luoghi una presenza fisica.

Da una parte i cittadini – ogni qualvolta si manifesta il bisogno da parte dello Stato di reperire nuove entrate – pensano sia giusto che prima di subire una ulteriore tassazione, si debba prima far pagare più tasse alle multinazionali. 

Dall’altra la politica ha gioco facile a raccogliere consenso puntando su una tassazione che non riguarderebbe i suoi elettori (i cittadini italiani), ma soggetti esteri che operano in Italia: d’altronde le multinazionali non votano.

TASSAZIONE: ASPETTI CRITICI

Ma se tutti sono d’accordo sull’esigenza di tassare meglio questi soggetti, perché non ci si riesce?

Una delle motivazioni è perché queste grandi realtà del digitale hanno una infinita capacità di lobbying, ma soprattutto perché esistono dei problemi oggettivi.

Infatti, le attuali norme fiscali internazionali ripartiscono la potestà impositiva in ragione di una presenza fisica nel Paese in cui opera l’impresa estera. Si fa generalmente riferimento ai concetti di ‘stabile organizzazione’, ‘rappresentante permanente’, ‘agente dipendente/indipendente’. Ciò implica che una minima presenza è condizione necessaria per poter riconoscere il diritto di uno Stato ad assoggettare a imposizione gli utili ivi prodotti.

Tuttavia, dato il carattere immateriale dell’attività, molte imprese operanti nel campo della digital economy non hanno bisogno di essere fisicamente presenti in uno Stato. Occorrerebbe allora una revisione degli standard internazionali, elaborati in epoca ormai risalente, per adattarli alla realtà della digital economy. 

La questione è molto complessa ed intricata e gli interessi molto forti e altamente confliggenti: Il problema è di distribuzione, ripartizione, accordo, sul livello di potestà impositiva tra il Paese in cui si trova la sede (Headquarter) della ‘casa madre’ e il Paese in cui avvengono le vendite. Il Paese della casa madre sostiene che il valore più importante è costituito dalle idee, dai brevetti che hanno consentito la realizzazione del prodotto ovunque questo sia poi realizzato e venduto.

I Paesi in cui è stata effettuata la vendita, d’altra parte, ritengono di dover tassare i guadagni che derivano dai consumi dei propri cittadini.

Per risolvere il problema sarebbe auspicabile trovare un accordo internazionale per ripartire in maniera equa la tassazione tra i diversi paesi interessati, evitando da una parte (come avviene attualmente) che le multinazionali paghino poco e dall’altra che vengano esposte a duplicità di tassazione.

Il tentativo di fare questi accordi si è riscontrato sia a livello comunitario che a livello OCSE. Proprio a livello OCSE, l’importanza strategica della Digital economy nella ripartizione delle potestà impositive tra Stati è stata affermata nel Report BEPS e nel relativo Action Plan, e ha portato , tra l’altro, alla creazione di una Task Force incaricata di redigere un Report ad hoc. 

In attesa di soluzioni concordate a livello internazionale, che al momento sono difficili da raggiungere a causa dei differenti interessi degli stati, alcuni paesi compresa l’Italia hanno emanato leggi nazionali che introducono prelievi su grandi soggetti con presenza multinazionale operanti nel campo della digital economy. 

“Alla base di tutto vi è stato, probabilmente, l’errore di non aver previsto almeno all’interno dell’Europa un’uniformazione delle aliquote fiscali – a parlare è Angelo Cestone, Dottore Commercialista esperto di questioni fiscali in materia digitale -. Ciò ha permesso nell’arco degli anni ad alcuni stati di applicare aliquote bassissime per attrarre capitali dall’Estero. La corsa per ottenere la residenza in questi stati da parte delle big company è stata immediata e questo ha contribuito, insieme ad altri fattori, all’emersione di queste storture, con società operanti in un Paese ma con residenza altrove. Esempio lampante è l’Irlanda che per i redditi delle società applica un’aliquota del 12.5%. Circa la metà dell’aliquota italiana”.

PUBBLICAZIONE DELLA GDF E PAROLA ALL’ESPERTO

Proprio in queste ore, in Italia, nell’ambito della preparazione della Legge di Bilancio, sono state annunciate nuove iniziative da parte del Ministro dell’Economia, che ha manifestato l’intenzione di modificare la normativa attualmente vigente per renderla più efficace e più simile a quella che si sta già sperimentando in Francia.

Il problema, però, è che le norme interne ai singoli paesi hanno portata limitata, perché gli Stati hanno difficoltà ad imporre la propria capacità impositiva al di fuori dei confini nazionali, né possono obbligare gli altri Stati sovrani a raggiungere gli accordi auspicabili e a modificare le loro leggi. Inoltre, si possono temere ritorsioni politiche ed economiche (ad esempio con l’apposizione di dazi) da parte di quegli Stati che ritenessero danneggiate le loro imprese.

L’argomento è centrale, ampio e di grande attualità. La pubblicazione ‘La tassazione della Digital Economy’, ad opera della Scuola di Polizia economico – finanziaria della Guardia di Finanza, e coordinata dal Prof. Maurizio Leo, ha il pregio di affrontare a 360 gradi i profili innovativi della materia, con un lavoro profondo e sistematico, oltre che aggiornato all’ultima Legge di Bilancio (Legge n.145 del 30 dicembre 2018).  

“Ho avuto il grande piacere di coordinare questa pubblicazione, che è un autorevole e aggiornato punto di riferimento – il commento del Professor Leo – per la profondità dell’analisi e per la competenza degli autori della Guardia di Finanza che, per compito istituzionale, sono operativamente impegnati su questo terreno”.

– Articolo a cura di Gianluca Dodero –