Il mio nome è Hopper, Job Hopper

– Dalla rubrica di Federica Cortesi, “The Buzz” –

Nell’olimpo del capitalismo, il Job Hopper appare più o meno come una chimera, quell’animale mitologico composto di più parti diverse per natura. Sulla terra invece, la realtà è ben più diversa.

Complici l’inadeguata offerta lavorativa, poco allineata ai bisogni del territorio, forse legata anche ad un divario culturale importante, il tanto condannato Job Hopper è meno raro di quanto si creda.

Esattamente, il Job Hopper chi e cosa fa?

Nato in quella terra che Lars Von Trier descrive come “delle opportunità”, gli Stati Uniti, il Job Hopper è figlio di una generazione molto vasta, che abbraccia gli anni 80 sino ad arrivare agli anni 2000; veste i panni del Millennial e del Gen Z, cibato del mito del posto fisso e il suo sport preferito è, contrariamente alle aspettative nutrite, saltare da un posto di lavoro all’altro, letteralmente.

Se in passato questa attività è stata vista e come insolita, banalizzata al semplice cambio di lavoro, per poi essere successivamente stigmatizzata, oggi la panoramica del mercato del lavoro ci mostra come i suoi profondi cambiamenti affrontati nel tempo, hanno reso questo fenomeno una condizione abituale, da non mistificare. Difatti, eliminando i Job Hopper la platea tra cui scegliere il proprio “talento” da tenere in casa si assottiglierebbe notevolmente.

Sembrerebbe una narrativa fin troppo poetica se non analizzassimo in profondità la situazione; nasce infatti spontanea la domanda: al netto dei cambiamenti storico-generazionali, cosa spinge una persona ad intraprendere questi continui salti?

Tu dimmi se pensavi solo ai soldi.

Diversamente da quanto ci si possa aspettare, la retribuzione non è la motivazione cardine. A confermarcelo è Marta Basso. Personalità intensa, piena di vigore, il suo profilo Linkedin ne è la prova. E’ la voce significativa del panorama digitale e molto di più; rappresenta in chiaro la generazione di questo tempo, capace di comprendere a pieno i profondi cambiamenti sia subiti sia provocati; con e in più forme, attraverso post, podcast, foto e video.

Lanciatissima in attività di ogni genere, non ancorata ad un particolare nome aziendale per un tempo relativamente lungo, mi ha fatto riflettere sul come non necessariamente una maggior permanenza in azienda sia traducibile poi in un bagaglio più pesante in termini di capacità. Allora le ho chiesto cosa pensasse di un fenomeno che la vede una protagonista vincente.

Etichettare questa situazione ne denota la percezione, indice di un divario generazionale ed esperienziale. L’accezione negativa del termine va a questionare quelli che sono i modelli di lavoro e la percezione delle organizzazioni”. Al centro di questa evoluzione incessante e perché no, naturale se vogliamo scomodare Darwin, sicuramente ha il suo peso la rivoluzione digitale, tale da permetterne il cambio narrativo.

A questo punto, cosa dovrebbero fare le Aziende al fine di evitare le fughe?  “Sicuramente fare in modo che le persone si riconoscano nei loro valori, cosa che oggi non succede. Oggi le persone si muovono per vocazione, passioni, interessi”. Mai ci fu affermazione più fedele allo scenario lavorativo odierno; basti pensare a chi, pur non guadagnando faraonici stipendi si sente perfettamente centrato con il mondo.

Siamo una generazione che fa della flessibilità il valore aggiunto necessario alla nostra conservazione.

Che sia anche questa la ricerca di una qualche forma di equilibrio?  “Considerato che non esiste una soluzione univoca e che la consapevolezza è il risultato di scelte personali, costruiamo il nostro equilibrio

iniziando dal quel che prima manca a noi stessi per poi contribuire al raggiungimento di quello altrui”.

Ovviamente Il commitment è soggettivo, legato al valore della persona, dell’azienda e che non necessariamente i due convergono allo stesso modo. Il peso è definito dalle scelte che ognuno ritiene più giuste per sé. Ne consegue la capacità di valorizzare le esperienze, che siano di breve o lunga durata.

È pronta già la lettera con scritte le sue dimissioni.

Ecco dunque che nel meccanismo subentra l’interrogativo sul come trattenere i talenti e, di conseguenza, cosa fare a riguardo del verificarsi di un altro fenomeno che oggi tanto ci anima; la Great Resignation o meglio detto a casa nostra come “Le grandi dimissioni”.

Perché il problema principale è rappresentato dal fatto che i datori non sono in grado di capire che i motivi per i quali si verificano le dimissioni siano quelli appena esposti.

Ancorati ad un retaggio per il quale “più soldi ti do, meno probabilità ci sono che tu vada via”, non comprendono a pieno il vero potenziale delle persone che si portano a bordo, tanto da perderle nel breve termine. Perché la remunerazione da sola non è più l’unico motivo per rimanere incatenati ad un impiego insoddisfacente e slegato dai propri valori. La relazione è la vera chiave di lettura. Che sia con altre persone o con quel che più ci lega nell’universo, il bisogno di connessione e non l’essere il mezzo di una transazione organizzativa, è la molla per la trasformazione.

Da un nuovo paradigma che mette al primo posto la salvaguardia della qualità della vita dove l’aspetto economico, sebbene ancora centrale, è subordinato alla salute psico-fisica.

La pandemia ha avuto un ruolo centrale nell’affermazione di un nuovo paradigma. Lo smart working ha riscritto le regole. Costretti in casa, si è stati privati della parte sociale del lavoro e contemporaneamente si ha avuto il tempo di mettere a fuoco i limiti della propria condizione occupazionale.

Una serie di sfide incombono sul mercato del lavoro. Alcune potrebbero ridisegnare le dinamiche fondanti del rapporto tra domanda e offerta degli attori in campo. Mentre si cerca di capire cosa resterà dell’approccio prepandemico e cosa invece è cambiato per sempre, i dati parlano di un paese (e un mercato) che oggi più che mai deve investire e reinventarsi se vuole trattenere il suo capitale umano e non perdere la sua spinta verso il futuro.

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