Germano Milite, campione di concretezza dal giornalismo al marketing
Intervistiamo il Digital Manager di INSEM SPA e Fondatore di YOUng per ripercorrere le tappe di una carriera di successo combattuta contro tutto e tutti
Germano Milite è uno dei nomi che in Italia devi aver sentito nominare. Hai letto un suo articolo, hai visto un suo video o, ancora meglio, hai avuto modo di confrontarti con lui sui social network. Vuoi perché usa un tono determinato, vuoi perché si trova spesso al centro dell’azione, Germano è una di quelle persone che ti resta impressa nella memoria una volta stabilito il primo contatto.
(Nella foto in alto Germano Milite, primo a partire da sinistra, aveva appena concluso una lezione in una classe di terza media in Brasile)
La sua storia, personale e professionale, merita un’attenzione particolare. Germano fonda un giornale online a 25 anni e getta le basi di un impero digitale su Facebook con oltre 800.000 fan divisi tra le diverse pagine gestite. Poi l’algoritmo di Zuckerberg cambia, il mercato dell’informazione continua ad essere stagnante, e allora Germano vira in direzione del mondo delle startup, prima, e del marketing digitale, dopo, mantenendo saldo in testa l’obiettivo, un giorno, di creare un giornale online economicamente sostenibile.
Non fatichiamo a definire Germano un combattente, come piace a noi, e dal tono delle sue risposte scoprirete perché. Contro le logiche familistiche del Sud, contro i professionisti impreparati, contro il sistema accademico tradizionale, Germano è andato dritto per la sua strada. Noi della Digital Combat Academy non possiamo che prestargli un microfono per raccontare i successi conseguiti sul campo. Nonostante tutto e tutti.
Il mondo del giornalismo e della comunicazione avanzano, la formazione accademica tradizionale sembra non stare al passo. Rispetto alle Facoltà Universitarie in Italia, quali aspetti ti senti di condannare?
“Premesso: parlo esclusivamente delle facoltà connesse in qualche modo al mio ambito professionale, che è per definizione in costante ed esponenziale evoluzione ed ha bisogno di persone continuamente “ispirate”, oltre che di talento. Ora, tenendo sempre presenti le eccellenti eccezioni che confermano però regole piuttosto deprimenti, il problema principale penso stia in quella che definisco “maratona nozionistica iper-semplificata”: molte Università per lo più si limitano ad imporre testi (spesso anche malscritti e poco aggiornati) e cercano di promuovere più persone possibili nel più breve intervallo di tempo possibile. Offrono in definitiva la promessa di un banale ufficio di collocamento come grezza manovra di marketing, ma non fanno appunto la cosa più importante: selezionare in maniera più elitaria chi può accedere agli studi, aiutando poi i talenti a trovare appunto la propria “ispirazione”.
Chi è già capace e mentalmente vivace, frequentando con il giusto approccio un’accademia, può di sicuro trovare giovamento e nutrimento intellettuale (come è accaduto anche a me e a molti altri), ma in ogni caso rischierà di sentirsi limitato e frustrato per l’organizzazione generale, che è assolutamente nemica di chi coltiva molti interessi e magari lavora fin dalla giovanissima età. L’Università non dovrebbe vendere posti di lavoro ed allevare studenti come fossero polli in batteria, ma favorire appunto profondo accrescimento intellettuale e culturale, concreto e duraturo. Dovrebbe trasferire un metodo, un approccio, una strategia per affrontare la vita oltre agli esami da dare in fila. Ma purtroppo molto spesso si dimentica della sua missione, in nome dei numeri e dei fondi (purtroppo sempre più scarsi) e diventa addirittura castrante per coloro che, dopo 12 anni di scuola dell’obbligo, vorrebbero anche poter decidere con maggiore autonomia cosa studiare, come e quando”.
Nonostante i gap della formazione tradizionale, tu ti sei staccato per tempo e hai seguito la tua strada. Hai costruito da zero un mondo editoriale come quello del celebre YOUng. I primi tempi YOUng macinava numeri da capogiro su Facebook, quando la reach organica era appannaggio anche di coloro che non investivano in pubblicità. Poi il progetto si è reinventato, passando alla formula dello slow journalism e dell’Adv nativo. Raccontaci le tappe fondamentali di quest’avventura giornalistica.
“Sì, ho frequentato Economia Aziendale e poi Scienze Politiche fin quando mi sono divertito e le ho trovate stimolanti. Poi ho deciso che per me erano più importanti l’abilitazione professionale come giornalista, il lavoro dei sogni che già facevo (avevo 21 anni) e soprattutto la possibilità di scegliere in totale autonomia ciò che volevo leggere ed imparare.
YOUng l’ho lanciato a 25 anni, nel 2012, insieme ad una piccola squadra di giornalisti e blogger. Eravamo tutti in gamba quanto ancora inesperti. Dopo appena sei mesi dal lancio, grazie al network di fanpage che avevamo messo insieme (contavamo su circa 800.000 fan iscritti alle pagine attraverso le quali diffondevamo i contenuti) e ad una bella redazione molto attiva ed appassionata, raggiungemmo oltre un milione di lettori unici al mese e quasi tre milioni di pagine viste.
Poi siamo diventati Startup Innovativa e siamo stati incubati da Digital Magics, dopo neppure un anno. Diversi reportage realizzati tra Brasile, Irlanda ed Africa con crowdfunding e sponsorship ed una certa credibilità guadagnata come testata. Purtroppo, però, la crescita costante avuta nel primo biennio in termini di visite e notorietà del brand non è stata accompagnata da una crescita lato introiti. Anzi: abbiamo cambiato infinite concessionarie, conoscendo un mondo spesso per nulla trasparente, assolutamente iniquo e molto poco remunerativo per editori emergenti e “pesci piccoli”. Un mondo nel quale è quasi impossibile entrare da “amici di nessuno” e senza macinare numeri enormi (a costo di perdere dignità professionale e calpestare la deontologia giornalistica). Siamo crollati nel traffico con i vari stravolgimenti di algoritmo di Facebook e la perdita di alcune fanpage a supporto.
Poi l’idea di cambiare (e rischiare) tutto, puntando su un giornalismo etico, di alta qualità, verificato e lontano anni luce dal clickbait e dalle bufale pubblicate per fare visite. Zero banner e pop up, solo sottoscrizioni mensili ed annuali dei nostri utenti affezionati, che venivano ripagate con articoli di alto profilo, inchieste e sconti esclusivi dai nostri partner. Una nuova piattaforma, finanziata con una piccola campagna di crowdfunding ed uno store interno dove spendere i crediti virtuali accumulati con donazioni e gamification. Ma era impossibile riuscire a lanciare un modello di business del genere avendo meno di 6000 euro di budget disponibili e quindi tutto è rimasto incompiuto, dopo aver registrato circa 200 sottoscrittori in 6 mesi.
Dopo anni di esperienze, errori, sconfitte e vittorie, siamo però finalmente riusciti a trovare investitori veri e seri decisi a puntare su di noi: entro luglio completeremo l’aumento di capitale, con l’ingresso di INSEM SPA nella compagine societaria e l’arrivo di liquidità vera tramite prestiti bancari. Avremo così la nostra prima, vera occasione di lanciare e testare il modello di business che abbiamo in mente da 2 anni e che siamo certi potrebbe rivoluzionare il modo di fare giornalismo online”.
Ipotizziamo che la Digital Combat Academy abbia la giusta visione del mondo, e che un breve percorso di formazione privata possa completare – senza necessariamente sostituire – il percorso universitario. Tu che sei stato anche docente saprai meglio di tutti come rispondere: cosa pensi dovrebbe assicurare un corso di formazione moderno?
“Prima di tutto analisi di casi di successo ed insuccesso (troppo spesso nascosti e mai citati) delle teorie tramutate in pratica su clienti reali. Non più simulazioni e compitini semplici, ma vere e proprie case history da analizzare con l’aiuto di docenti che però sono immersi fino al collo nella pratica. Insomma: chi insegna deve essere anche qualcuno che opera giornalmente nel settore di riferimento e non solo un abile teorico.
Poi testimonianze che sappiano orientare ed ispirare i discenti, spingendoli non solo al sacrosanto studio metodico, ma anche ad un approccio più consapevole e quindi coraggioso alla vita, non solo professionale. I ragazzi hanno bisogno di esempi, di guide, di storie vere e non di “storytelling” edulcorato (posso dire che sto termine ha un po’ rotto il ca***?). In ultimo ma non per importanza, cercare di dare sempre la possibilità di integrare i fondamentali corsi in aula con una costante formazione anche a distanza, utilizzando gli ultimi strumenti tecnologici a disposizione (Telegram, Facebook Live nei gruppi, Hangout ecc).
I primi innovatori dei futuri innovatori, devono infatti essere i formatori/docenti. In tal senso, pensare a percorsi continuativi anche per chi è distante dalla sede fisica della scuola o per chi svolge orari di lavoro particolari, sarebbe a mio avviso un elemento d’eccellenza”.
Il tuo profilo LinkedIn parla chiaro. “Caserta, Italia”. Nella tua scalata professionale, quali resistenze senti di aver incontrato nel tuo contesto geografico di partenza?
“Rischio di essere retorico e scontato se vi parlo della ‘mentalità provinciale” di una “città meridionale piccolo-borghese’ e della pratica costante del ‘ti prendo a lavorare se conosco i tuoi genitori’. Ergo evito e passo direttamente a ciò che rappresenta per me il freno principale per i giovani più ambiziosi, ovvero un tessuto industriale oggettivamente poco sviluppato e tendenzialmente familistico, con imprenditori che in realtà a volte sono più che altro “prenditori” e non hanno alcuna vision non dico di lungo ma neppure di medio periodo. E non parlo del piccolo ristoratore, ma anche del CEO che gestisce aziende da milioni di euro di fatturato.
Però devo dire che, noi terroni ambiziosi, siamo costretti ad essere anche un po’ spartani fin da giovanissimi e questo ci permette di affrontare, con enorme spirito d’adattamento e grande coraggio, sfide che per altri sono semplicemente folli. Riuscire a realizzarsi da queste parti significa riuscire due volte e penso che questo sia paradossalmente uno stimolo per chi ha un po’ di forza di volontà e sa vedere opportunità dove molti altri vedono solo il deserto e lo sconforto.
In conclusione, quindi, direi che la mia terra mi ha dato la motivazione necessaria per crearmi da solo le opportunità che non ha saputo regalarmi. Sono stato educato a lottare per ottenere cose che in altri luoghi sono la norma e questa cosa mi ha temprato e, molte volte, ispirato: penso che le migliore cose le facciamo spesso nei periodi più difficili e nei territori più ostili”.
Gli e-commerce sono terreni di gioco divertenti per chi ha talento. Rappresentano le sfide professionali più tangibili dove attività di comunicazione e marketing impattano direttamente sul fatturato di un’azienda. Qual è il progetto di e-commerce su cui INSEM ha avuto un impatto maggiore e quale lezione ti senti di condividere con chi si affaccia per la prima volta nel settore?
“Gli e-commerce sono a mio avviso il primo muro contro il quale ogni marketer prima o poi si romperà i denti, capendo cosa significhi sul serio lavorare per incrementare il fatturato di un’azienda che punta a vendere prodotti e/o servizi sul web.
In INSEM seguiamo numerosi progetti, con budget (ed obiettivi) anche molto diversi tra loro. Proprio di recente, siamo riusciti a vendere online una bicicletta da oltre 5000 euro e non tramite campagne adv, ma con il grosso lavoro di posizionamento fatto nell’ultimo anno sul portale che stiamo seguendo.
Chi lavora con gli e-commerce, sa bene quanto sia difficile convincere qualcuno a farti un bonifico da diverse migliaia di euro, comprando un bene che non ha neppure potuto provare o vedere dal vivo. L’anno scorso abbiamo lanciato un altro progetto molto interessante, per la vendita di Hoverboard, piazzando quasi 200 pezzi nei primi 7 mesi (da 400 euro l’uno) considerando solo il canale Facebook Adv.
C’è però da ricordare sempre (e qui veniamo al punto sulla lezione che ho imparato) che la maggioranza degli e-commerce muoiono entro due anni dal lancio, soprattutto per carenza di budget e problemi logistici/scarsa organizzazione di chi li dovrebbe gestire. Vale per tutti, solo che poche agenzie lo ammettono e non parlano con piacere dei pur fisiologici casi di insuccesso. La verità è che è abbastanza difficile riuscire a rendere un e-commerce fruttifero, soprattutto nel primo triennio di attività e se non si hanno bei budget a disposizione.
Chi oggi decide di vendere online, deve sapere che dovrà investire molto ed avere molta pazienza prima di vedere risultati e che potrebbe comunque essere costretto a chiudere i battenti virtuali. Ci sono le eccezioni, certo, con realtà che in breve tempo e con investimenti ridotti riescono a sfondare, ma sono appunto casi sporadici e sempre più rari, in particolar modo se consideriamo il solo mercato italiano. La regola prevede sudore, sangue e molto denaro prima di iniziare a sorridere per i risultati ottenuti. Aprire un negozio online è impegnativo e costoso come aprirne uno fisico. Capirlo è il primo passo per evitare alcuni errori, spesso cruciali e cocenti delusioni”.
Domanda finale, quella di rito. Tre consigli per un giovane appena diplomatosi al liceo con una grande passione verso la comunicazione digitale.
“Prima di tutto un augurio: che la comunicazione digitale sia sul serio una vocazione per lui/lei, perché in questo settore più che in molti altri il talento innato che si possiede è cruciale e fa la differenza. Chi fa business con la formazione raramente lo dice, ma ci sono capacità e strategie che non si possono insegnare: o le hai di tuo e le coltivi, o resterai sempre ai margini.
In merito ai tre consigli, il primo è di non fossilizzarsi troppo su titoli, attestati, certificati e master costosi. Laurearsi presto e bene, se si vuole prendere un titolo accademico ed iniziare a lavorare prima possibile. Nel nostro settore, più che in molti altri, quello che sai fare conta parecchio di più di quello che dici di saper fare e del pezzo di carta che dovrebbe attestare determinate competenze. La teoria è irrinunciabile e richiede costante aggiornamento, ma penso che prima possibile occorra avere l’occasione di fare buona pratica e rompersi un po’ di ossa sul mercato, che non è democratico, non ha alcuna pietà, se ne sbatte dei tuoi 110 e lode e ti prende a calci nei denti fin dal primo giorno.
Secondo consiglio: se non lo fa già, seguire con assiduità le migliori fonti estere, in particolar modo quelle americane (Mashable, Moz, le news di Facebook Blueprint ecc).
In ultimo, cercare di confrontarsi con chi ha molta esperienza nel settore e di specializzarsi almeno in un ambito della comunicazione online, senza mai dimenticarsi di leggere almeno 4-5 libri nuovi l’anno sul tema o sui temi che sente più vicini e stimolanti. Avere quindi i giusti contenuti (e le giuste opinioni ed esperienze personali) da poter diffondere in rete per crearsi una buona identità online, che sia aderente con quella offline. In questo modo, riuscire ad andare oltre il semplice curriculum, facendo si che sia una ricerca su Google (e/o su Linkedin) a presentarlo al meglio a prospect e potenziali datori di lavoro. Del resto è semplice: quale modo migliore per dimostrare la propria perizia nel digital marketing se non una corretta e brillante gestione della propria reputazione e visibilità online?”.
Serietà, ambizione, personalità. Contiamo di averti presto come docente, caro Germano.