Francesco Picchio, Il Volto del Marketing Digitale nella Realtà Virtuale
Intervistiamo il Responsabile Marketing di Orwell VR, startup che si occupa di computer graphics e realtà virtuale. Mercato nuovo e tutto da esplorare
Abbiamo conosciuto Francesco Picchio al Talent Garden di Calabiana, a Milano. Francesco lavora come Responsabile Marketing di Orwell VR, startup che si occupa di computer graphics e realtà virtuale. È un professionista di cui ci interessa condividere la storia perché rappresenta uno dei pochi eletti, nel 2017, e in Italia, a rappresentare la categoria dei marketer su un terreno nuovo e tutto da esplorare come quello della VR.
Alla Bocconi di Milano ha costruito il suo network, all’Università Carlos III di Madrid ha iniziato a sporcarsi le mani con la pratica. Infine, di nuovo a Milano, Francesco ha imboccato la sua strada professionale lanciandosi a capofitto in un settore dove c’è la tecnologia ma manca ancora l’adozione su scala. Poche persone investono, specie in assenza di un ritorno economico sul breve termine, e ancora meno persone capiscono questo mondo, ancora dominato più dagli informatici che non da intelligenze di stampo umanistico.
Francesco è una di queste intelligenze. Persona solare, mentalità positiva, approccio orientato ai risultati, è riuscito a pilotare una campagna di equity crowdfunding che ha portato, in totale, 200.000 euro nelle casse della startup di cui è Responsabile Marketing. È riuscito a raggiungere questo risultato in assenza di budget e, per di più, durante l’estate, cioè in un periodo in cui in Italia il mercato si muove molto poco.
Lasciamo la parola al protagonista di questa storia. Abbiamo la solida convinzione che A) i destini della Digital Combat Academy e Orwell VR prima o poi si incroceranno e B) Francesco è una di quelle persone la cui carriera esploderà nell’arco di pochi anni. Giusto il tempo di dare all’Italia il piacere di conoscerlo.
Ogni carriera parte dalla formazione, sia essa pubblica, privata o da autodidatta. Il nome Bocconi risuona forte sul tuo curriculum, ma sappiamo anche che hai una visione critica del tradizionale sistema accademico. Cosa promuovi e cosa bocci del tuo percorso formativo?
“Non posso nascondere che il nome Bocconi sia stato una parte essenziale del mio percorso formativo. La Bocconi è un’Università che costa tantissimo, e non parlo ovviamente del lato economico; si parla tanto di Università privata dove ti compri gli esami, ma la realtà è ben diversa. C’è una realtà fatta di durissimo lavoro e tanto sacrificio, che poi ovviamente viene ripagato dalle lezioni che apprendi. Sono stato contento di aver fatto questo viaggio, anche se come ripeto è costato molto anche sul lato umano.
Tuttavia mi rendevo conto che terminato quel percorso, molto accademico, mancasse un risvolto pratico, che come ben sapete, manca in generale oggi all’istruzione italiana. Tanti libri, tanti nozioni ma poca relazione con l’aspetto pratico.
Per questo mi sono spinto poi a Madrid per un master in marketing management, presso una delle migliori università d’Europa: la Carlos III. Lì ho potuto colmare quel gap, e abbinare la teoria a diverse esperienze con aziende. Il bello di quella realtà è che i professori sono persone con esperienze aziendali forti, e che ti trasmettono questo loro background durante le lezioni. Indubbiamente quindi promuovo la praticità del mio percorso formativo, ne boccio però la troppa teoricità.
L’insegnamento solo teorico della materia non basta più, dobbiamo capirlo, e in primis sono gli insegnanti a doverlo capire. A partire dal liceo e per finire in Università. Gli studenti, di qualsiasi tipo essi siano, devono imparare a fare le cose del mestiere che scelgono; se un insegnante non è in grado di trasmettere questo, tanto vale che quel lavoro lo faccia un robot, e purtroppo (o per fortuna) è quello che succederà in 10 anni se non cambiamo il trend”.
Un’esperienza all’estero ha sempre il potere di aprire la mente. Cos’hai fatto a Madrid nel 2015 e cosa ritieni di esseri riportato a casa da quell’anno in Spagna?
“Madrid è stata in generale una fase molto complicata della mia vita. Spostarsi in un Paese estero dopo 3 anni di Università in cui hai creato un network importante è un passo molto difficile. Quindi intanto posso affermare di aver portato a casa molto spirito di sacrificio e di adattamento. Poi c’è il lato accademico, che è stato incredibile.
Come anticipavo, ho avuto la possibilità di fare tanta pratica sugli argomenti studiati; questo è stato un grandissimo valore aggiunto che in precedenza non avevo mai avuto. Ho potuto capire in prima persona la differenza tra chi studia tanto e applica 0, e chi studia meno ma applica 100; il secondo è avanti di circa 1 milione di passi. E questo l’ho poi potuto vedere nel confronto con alcuni amici che studiavano le stesse materie in Italia.
Facendo un esempio, ho conosciuto persone da 110 e Lode che non sapevano cosa fare aprendo un pannello Adwords o consultando Analytics; sempre gli stessi, non avevano idea di come raggiungere nuovi contatti, e vedevano Facebook come un social network con cui passare il tempo anziché una fonte di guadagno. Ho imparato che nel Mondo del Marketing del 2017, ci vuole tanta umiltà per dirsi che non si smette mai di imparare e soprattutto di mettere in pratica quello che si è imparato”.
Nel febbraio del 2017 parte un’avventura coraggiosa: è quella come Responsabile Marketing di Orwell VR, azienda milanese operante nell’industria della realtà virtuale. Parlaci di come sei atterrato in questo pianeta inesplorato e che ruolo hai avuto nella campagna di equity crowdfunding.
“Mi ricordo che nel febbraio del 2017 ero in cerca di lavoro, reduce da una serie di campagne online decisamente impegnative in ambito politico. Fatte varie application e vari colloqui, ero in procinto di firmare con un colosso dell’elettronica di consumo e dei videogiochi.
Poco prima arrivò la chiamata di Andrea Antonelli, CEO e Founder di Orwell VR. Mi colpirono da subito la sua mentalità aperta al nuovo e le sue idee, e indubbiamente anche il mio interesse pregresso nel settore della VR. Durante l’Università a Madrid avevo infatti partecipato allo sviluppo di una campagna per LaLiga basata sulla VR, e quindi ero già molto interessato a quel Mondo. Decisi di accettare questa sfida senza troppe esitazioni.
Al mio arrivo trovai in azienda un bellissimo ambiente, fatto di professionisti con idee fresche e voglia di fare. Nonostante l’azienda avesse un potenziale di prodotti davvero elevato, c’era tanto bisogno di lavorare duramente sulla comunicazione, specialmente online. E ovviamente, come in tutte le piccole e medie imprese italiane, il budget era ridotto. Decidemmo quindi, di intraprendere una campagna di Equity Crowdfunding sulla piattaforma “Opstart”.
La campagna comunicativa è partita andando contro a tutte le regole del buon senso e della programmazione. Progettata principalmente da me, con la supervisione del CEO e il supporto di altri collaboratori dell’azienda, la creazione della campagna è durata solo 2 settimane. Per dare un’idea, mediamente l’unità di misura per la progettazione di queste campagna è il mese, e non la settimana. Il lancio della campagna, causa ritardi burocratici, è slittato alla metà di giugno; in Italia, l’estate è un pessimo momento per lanciare qualsiasi cosa. Avevamo tutti gli indicatori contro, e la campagna è stata praticamente a costo 0. Abbiamo creato 1 video dove presentavamo il nostro team, i nostri lavori, e i nostri progetti futuri. In media, avevo programmato 3 post a settimana sui social per 1 mese e mezzo. L’obiettivo da raggiungere era di 100mila euro.
In poco più di 30 giorni (quindi a metà luglio) avevamo già raccolto 160mila euro, e nelle rimanenti 3 settimane di campagna (che aveva una fine programmata al 4 agosto) abbiamo concluso la raccolta toccando i 200mila euro, il tetto massimo che avevamo stabilito all’inizio. È stato un risultato da case study se ci pensiamo, raggiunto grazie al duro lavoro e alla programmazione quasi maniacale che ho messo in atto. Del resto, quando non hai grandi fondi, devi essere preciso al 110% su tutto il resto”.
Concludiamo con una visione del futuro, quantomai necessaria per chi come te lavora nella comunicazione del futuro. Quello della realtà virtuale è infatti un settore in cui c’è la tecnologia ma l’adozione di massa sembra essere ancora lontana, specie in Italia. Quali sono le caratteristiche che un’azienda VR-based deve avere per restare rilevante e sostenibile sul mercato da qui ai prossimi 5 anni?
“Senza dubbio, a livello comunicativo, la prima caratteristica che dobbiamo avere è la pazienza. Dobbiamo essere pazienti nello spiegare bene che cos’è questa VR e come puoi aiutare le aziende e il consumatore finale.
Quando penso a questo mercato capisco che ci sono tutti gli elementi per far sì che nei prossimi 3 anni la VR rappresenti quello che internet ha rappresentato tra il 2000 e il 2010. All’inizio degli anni 2000 la classe dirigente delle aziende di tutto il mondo guardava con sospetto internet; è lo stesso sospetto con cui oggi quelle stesse aziende guardano la VR. Nessuno vuole investire in qualcosa che ti darà un guadagno fra 2-3 anni; i manager, a corto di idee e soldi, vogliono un investimento minimo da fare oggi in qualcosa che renda tanto domani mattina.
Anche io vorrei in regalo una Ferrari che faccia 300km con un litro di benzina, ma ciò non significa che esista. Nei primi anni 2000 il CEO di Netflix andò dal CEO di Blockbuster, proponendo una partnership in cui Netflix gestiva lo store online di Blockbuster in cambio di un po’ di pubblicità nei negozi. Ma il CEO di Blockbuster era troppo furbo, e gli rispose che non credeva in internet, perché la velocità della rete era troppo ridotta all’epoca per permettere lo streaming. Perché dovrei investire oggi in qualcosa che ancora non funziona già da subito al 100% ma solo al 40-50%? E infatti 4 anni fa Blockbuster ha chiuso per fallimento, mentre Netflix oggi fattura 8.30 miliardi di dollari.
La realtà virtuale oggi vive la stessa situazione. Gli hardware sono potenti ma ancora possono crescere tantissimo, e soprattutto non hanno una distribuzione di massa né in Italia né nel Mondo. Tuttavia nessuno fa notare che il prezzo del VIVE (lo strumento più potente) sta scendendo drasticamente, e che gli utenti attivi aumentano con percentuali a tripla cifra. Mark Zuckerberg l’ha capito e ha investito 2.8 miliardi nell’acquisto di Oculus, società che produce visori VR.
Quindi, per tornare alla domanda, oltre alla pazienza ci vuole anche tanto pragmatismo e tanta qualità. Dobbiamo capire che la VR non ha ancora raggiunto tutti, ma lo farà a breve. E soprattutto, essendo le aziende VR di oggi i pionieri del settore, devono tirare fuori lavori di qualità per far avvicinare gli utenti; diversamente la VR non avrà futuro.
Non penso abbia senso cercare di fare il colpo grosso oggi, vendendo prodotti scarsi per contenere i costi e aumentare i guadagni nel breve periodo, danneggiando la qualità di tutto il settore. In Orwell ho trovato una realtà che pone molta attenzione a questi fattori, e il mercato infatti ci dà ragione; il nostro fatturato è in crescita e l’azienda cresce di notorietà. Come dicevo dobbiamo avere tanta pazienza, ma se siamo bravi a comunicare e a creare prodotti di qualità, questo mercato ha già tantissimo da darci”.