Dal clickbait al brand journalism

– Dalla rubrica di Luca Prioreschi e Federico Impavidi, “Tell Before Sell” —

C’erano una volta i gatekeeper

Una dei temi più dibattuti riguardo internet è sempre stato: la rete è democratica? Internet porta più eguaglianza, pari opportunità? Oppure non fa che riprodurre, se non addirittura aumentare, la distanza tra chi ha il potere e chi non lo ha? 

Lo spazio di questo articolo sarebbe appena sufficiente a porla una domanda così imponente, figurarsi tentare di rispondervi. Ma una cosa possiamo dirla: internet, soprattutto negli ultimi 10 anni, ha dato a tutti la possibilità di esprimersi, comunicarsi, mettersi in gioco. Da MySpace ai blog, ai social media, quello che è sotto gli occhi di tutti è l’abbattimento della barriera tra chi produce e chi fruisce. 

I gatekeeper hanno per secoli tenuto in mano le chiavi del cancello dell’informazione, stando sulla soglia e decidendo cosa andava comunicato e cosa no. Chi sono i gatekeeper? Editori e reporter, per esempio. Internet li ha scomodati, ha abbattuto quel cancello e ha dato la possibilità a tutti di produrre informazione.

Semplificando al massimo, abbiamo spiegato che cos’è la disintermediazione giornalistica. Quella parziale perdita, da parte del giornalismo, della capacità di mediare la realtà con la fiducia dei lettori. 

Gratis, ovviamente.

Se c’è un’altra cosa che possiamo dire di internet, è che ci ha viziato alla gratuità. Se ci pensiamo, la maggior parte del materiale di cui fruiamo online, non lo paghiamo. Diciamolo meglio: non lo paghiamo in denaro. Evitando di aprire l’enorme discorso dell’economia dell’attenzione, limitiamoci anche qui ad una constatazione lampante: nell’era di internet, nessuno vuole più pagare le notizie. 

Quel comportamento di consumo per cui siamo disposti a pagare le notizie, pagare un giornale, viene sempre meno. Sport, politica, economia, possiamo avere tutto gratis cercando online. Di più: quasi sempre non dobbiamo neppure cercare le notizie, sono loro a cercarci.

Se per secoli è stato il lettore a pagare e inseguire la notizia, ora è la notizia che insegue il lettore. 

E se una delle più forti leve del marketing è la scarsità, in un mercato così strutturato le news perdono ogni valore. Le notizie non valgono più niente

Il risultato di questo doppio processo per il settore dell’informazione è chiaro, è la realtà che viviamo: perdita di lustro, perdita di mezzi economici. Con l’unica possibilità di modelli di business basati sulle visualizzazioni di banner pubblicitari, perdita anche della fiducia dei lettori, che si ritrovano a cliccare su titoli ingannevoli. 

Volete una prova? Provate a vedere il sentiment dei commenti sotto i post delle testate, anche quelle maggiori e più famose. 

Antidoto Brand

Cos’ha di speciale il Brand Journalism? Se ci pensiamo, il brand journalism ha un’innata capacità di resistere a questi fattori di crisi. E la chiave sta, ovviamente, nel concetto di brand.

Partiamo di nuovo da una solare considerazione: oggi il brand è il metro con cui ragiona il mercato, sia lato consumatore che, di conseguenza, lato marketing. Reputation, awareness, loyalty, experience, equity. Tutte paroline che, precedute da “brand”, fanno da protagoniste sul palcoscenico economico e comunicativo.

Quando il grande marchio, che ha un patrimonio di riconoscibilità, di fiducia, di considerazione da parte del grande pubblico, si trasforma anche in testata ed emette notizia, l’impatto comunicativo è assicurato. 

Non si tratta più solo di spingere all’acquisto, ma di possedere la capacità di interferire con cosa le persone sanno e non sanno, c’è molto di più in gioco. La posta in palio è attingere a quella mediazione della realtà che l’informazione svolge.

Informare è, inevitabilmente, narrare. Potrebbe innescarsi la pericolosa equazione: informazione = storytelling = marketing. Sbagliato. Informare non è mai vendere

Certo, se produrre un brand magazine non avesse un impatto positivo sull’economia dell’impresa, il brand journalism non esisterebbe probabilmente: i brand ragionano per profitto e non per filantropia. Tuttavia, vendere i prodotti dell’azienda non è lo scopo di un progetto di editoria corporate. 

Esempi dalle migliori aziende del mondo

Per approfondire

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