Christian Ruggiero, il Docente che Onora le Scienze della Comunicazione

Mentor per gli studenti, relatore per i tesisti, ponte per i neolaureati in cerca di lavoro. Umanità e intelletto per rendere l’Università un posto migliore

Noi della Digital Combat Academy facciamo formazione di Marketing Digitale e riconosciamo l’importanza di due elementi fondamentali: competenze e network. Rappresentano la nostra moneta di scambio nei confronti degli studenti, e il motivo per cui ci fregiamo di svolgere formazione moderna.

Attenzione però. La formazione moderna non deve sostituire quella tradizionale, bensì affiancarla. Dopotutto, il numero di persone che riesce ad imparare tutto da autodidatta è limitato rispetto alla popolazione di un Paese. La maggior parte dei giovani – e meno giovani – deve essere guidata nel processo di apprendimento, anche semplicemente per espandere la propria visione del mondo anziché inerpicarsi in un aspetto particolare della vita. La Facoltà di Scienze della Comunicazione, in questo, è maestra. Si tratta solo di incontrare le persone giuste.

Qualunque studente abbia varcato la soglia di Scienze della Comunicazione alla Sapienza – Università di Roma deve conoscere il protagonista di questa intervista. Il Prof. Christian Ruggiero rappresenta un’autorità umana e intellettuale di cui è giusto raccontare la storia. È fondamentale spargere il verbo che un’Università bella e utile può ancora esistere.

Merito di pochissimi professori, come Christian Ruggiero, disposti a sacrificare infinite ore del proprio tempo libero per supportare gli studenti, dentro e fuori dall’Aula. Il percorso universitario è spesso travagliato, pieno di insicurezze sul futuro, e trovare una guida pronta a rispondere alle email di sera, o nel weekend, rende tutto semplicemente più umano.

Qualora mai vi chiedessero di scegliere tra una Facoltà di Comunicazione e l’altra, con sede a Roma, ricordatevi quest’intervista. Senza intenzione di fare pubblicità a nessuno, dato che non ce ne viene in tasca nulla, ricordatevi che alla Sapienza – Università di Roma c’è una persona speciale che, da anni, combatte ogni giorno per migliorare le vite degli studenti di comunicazione.

Se anche voi avete capito il valore del network come noi, sappiate che conoscere il Prof. Ruggiero durante un percorso di Laurea Triennale o Specialistica vale, da solo, il prezzo del biglietto.

Ci troviamo nel 2006 e (il futuro Prof.) Christian Ruggiero si laurea in Scienze della Comunicazione con una tesi su Umberto Eco. Tempi diversi, stessa Università. Undici anni dopo, quale pensa sia la differenza più grande tra ‘quella’ Facoltà di Scienze delle Comunicazione e ‘questa’ di oggi?

“Cominciamo da quel che è rimasto un tratto caratterizzante: è una Facoltà che ha sempre dato, e continua a dare, pur con i limiti di cui dirò tra poco, moltissimi stimoli ai suoi studenti. Questo è un tratto che emerge ancora oggi in almeno due contesti.

Anzitutto, nella costruzione dei percorsi triennali – che mantengono una voluta e finora strenuamente difesa multidisciplinarietà a diversi livelli, da un lato nell’esplorazione dell’origine e delle principali applicazioni della Sociologia della Comunicazione, e dall’altro nell’interpolazione di queste con le basi dell’Informatica, dell’Economia, del Diritto: un bouquet che prende una caratteristica fondamentale di ogni corso di laurea umanistica e scientifico-sociale e ci mette su un particolare investimento, nel numero e nell’importanza di questi insegnamenti apparentemente ‘ancillari’ nel percorso dello studente.

Intendiamoci: pure io ai miei tempi ho avuto i miei problemi con l’Economia Politica, ma mi rendo conto che certi processi che riguardano anche i miei interessi di studio sarebbero più difficili da cogliere e analizzare se non avessi almeno qualche sparuta nozione rimasta conficcata in testa.

Il secondo livello attiene più alle lauree magistrali, e riguarda il coinvolgimento dei professionisti della comunicazione. È una questione spinosa, perché le politiche ministeriali di questi anni hanno da un lato drasticamente ridotto le condizioni per avere docenti a contratto e dall’altro insistito in termini di valutazione per quei corsi di laurea che avessero un rapporto privilegiato con i propri ‘stakeholder’.

Per fortuna, i buoni rapporti costruiti nel tempo con molti professionisti delle industrie dei media, del giornalismo, dell’organizzazione d’impresa, della pubblicità, della ricerca non universitaria, e la tenacia con cui noi docenti li abbiamo coltivati, continuano a dare buoni frutti, e c’è sempre qualche docente non ufficiale che viene a regalarci un po’ del suo tempo per qualche sperimentazione didattica che ‘in solitaria’ non avrebbe lo stesso successo.

In riferimento alla mia esperienza personale, insegno Giornalismo Radiotelevisivo con Francesco Giorgino, ed è già un bel plusvalore didattico per i miei studenti, anche perché stiamo parlando di un giornalista che da anni ha affinato la sua conoscenza ‘teorica’ della Sociologia del giornalismo. E negli anni passati ho avuto il piacere di condividere insegnamenti con Michele Mirabella, che unisce a una immensa cultura una incredibile capacità affabulatoria – fuori come dentro lo schermo. Ma per sfruttare al massimo il Laboratorio radiofonico riteniamo importante poter fare affidamento (gratis et amore dei) a figure come Alessandro Cisilin e Marco Lombardi, per coinvolgere gli studenti in vere e proprie sessioni di redazione e realizzazione di giornali radio o di programmi culturali (costruiti sull’intuizione della Radiogustologia).

È per questo mix, che ‘ai miei tempi’ era costruito su un percorso unico, che ho avuto l’idea di chiudere il mio percorso approfondendo una figura così prismatica come quella del compianto Umberto Eco: la sfida era quella di ‘dimostrare’ come il semiologo, lo studioso e critico delle comunicazioni di massa, il narratore, fossero tutte dimensioni interrelate, espressione della capacità di una mente geniale di mettere in pratica quel che le Scienze della Comunicazione, almeno come le intendevo io, potevano realizzare. Anche a livelli meno ‘alti’, pur sempre a patto che s’intendessero i confini tra quel che s’era studiato come barriere da attraversare, non muri da difendere.

Cosa è cambiato. È tutto più burocratizzato, ed è un gran peccato. Si è detto molto degli effetti che le varie riforme universitarie hanno avuto, e in effetti vedo che la spinta alla standardizzazione del percorso dello studente si è in molti casi trasformata in oggettiva difficoltà a dedicarsi a ‘escursioni’ che secondo me sono molto importanti.

Io ho avuto modo di seguire numerosi seminari ‘complementari’ ai corsi, cosa che via via è andata scomparendo, e ho potuto mettere in pratica la folle intenzione di seguire Marketing e Teorie e Tecniche del Giornalismo senza dare i rispettivi esami – che erano complementari ad altri ai quali pure non volevo rinunciare, e non ero ancora così pazzo da investirci anche il tempo dello studio finalizzato all’esame, ma erano corsi dei quali sapevo di avere bisogno, e la ‘storia’ mi ha dato ragione. Queste sono esperienze che oggi uno studente, per quanto sgobbone, non può probabilmente permettersi di fare, o perde un ritmo al quale non è facile armonizzare la propria, di canzone”.

Che studente universitario era, quel Christian, e come ha vissuto l’esperienza da discente?

“Mi sono già definito uno sgobbone, ma è importante specificare che sono stato uno sgobbone innamorato. Ho un ricordo molto preciso di quando le materie che studiavo sono diventate qualcosa di ‘vivo’, a cui appassionarmi davvero: secondo semestre del primo anno, esame di Istituzioni di Sociologia, e Sandro Bernardini che ci guidava nella lettura di ‘Storia e critica dell’opinione pubblica’ di Jurgen Habermas; un libro che non esiterei a definire indigesto per uno studente di primo anno: ma che bella indigestione!

Ne uscii con una motivazione nuova, che al secondo anno mi portò a iniziare a collaborare con la cattedra di Teorie e Tecniche delle Comunicazioni di Massa con Luciano Russi – altra cosa che s’è persa nel tempo, la bizzarra figura dello ‘studente interno’, che s’imbarcava nell’impresa di affiancare allo studio per gli esami una collaborazione che si risolveva in un po’ di lavoro ‘amministrativo’ ma soprattutto nella partecipazione alle attività di ricerca. La prima fu sulla fruizione cinematografia, e se la teoria e i risultati sono rimasti un po’ nel cassetto i metodi sono stati messi a frutto, e mi hanno dato gli strumenti per distinguermi nelle collaborazioni successive.

Al mio terzo anno realizzai così una sorta di manovra a tenaglia sul mio maestro Mario Morcellini: lato ricerca, mi presentai come il più attivo del gruppo Mediamonitor che, in collegamento con il corso di Comunicazione Politica di Sara Bentivegna e coordinato da Marzia Antenore e Ugo Esposito, aveva realizzato un monitoraggio a tappeto delle trasmissioni di comunicazione politica andate in onda in occasione delle elezioni europee del 2004; lato didattica, mi presentai come uno dei più curiosi nell’aderire alla sperimentazione di didattica innovativa ‘Comland’, ideata e coordinata da Silvia Leonzi, Giovambattista Fatelli e Gianni Ciofalo.

Gli anni della laurea e del dottorato sono trascorsi dividendomi tra queste due ‘anime’, una più orientata alla ricerca, nella quale è maturato e si è sviluppato il mio interesse per l’analisi del talk politico, l’altra più orientata alla didattica, intesa come un insieme indissolubile di trasmissione ‘frontale’ delle conoscenze e di condivisione collaborativa delle loro applicazioni”.

La vita è tanto complessa quanto semplice. A volte servono anni di premeditazione per arrivare a ponderare una scelta, altre volte basta una piccola molla per scatenare un’azione decisiva. Quali sono gli elementi che hanno innescato in lei la determinazione a perseguire la strada accademico?

“Temo di averti già bruciato buona parte della risposta. Ma voglio ribadire due elementi fondamentali: da un lato, l’amore per la disciplina; dall’altro, l’importanza di un ambiente aperto e collaborativo. Il primo è naturalmente incontrollabile, ma quando scocca la scintilla dice molto di che tipo di studioso diventerai: se t’innamori di Habermas letto da un sociologo, è logico che decidi di dare alla politica un ruolo centrale nel tuo curriculum, ma ne deriva anche che se da un lato avrai ‘fame’ di strumenti per seguirla, studiarla, interpretarla nei media, dall’altra non potrai mai considerare le basi sociologiche e metodologiche del tuo lavoro come “esami di primo anno”, da studiare e mettere da parte.

In questo, un esempio ad altissimi livelli è stato Gianni Statera, che ho conosciuto attraverso la dedizione dei suoi allievi. Scorri la sua biografia le sue opere: sì, è la stessa straordinaria persona ad essersi cimentata con problemi di metodo delle scienze sociali apparentemente così astratti da poter essere considerati filosofia, e a produrre alcune delle più intuitive e rigorose analisi della discesa in campo di Sivio Berlusconi; tutto questo cambiandosi almeno una volta al giorno la giacca del professore con quella dell’intellettuale organico, e sapendo integrare questi due ruoli con maestria.

Veniamo al secondo elemento: coinvolgere uno studente, ancor prima del dottorato, in attività di ricerca e di didattica, è una scommessa difficilissima, che non tutti sono pronti a fare: non solo si tratta di effettuare un minimo addestramento, e una costante supervisione; si tratta di dare fiducia a qualcuno che, proprio perché non è abituato a questo tipo di lavoro, può avere un’intuizione, una critica, in poche parole un approccio che rischia di rivoluzionare gli stili che gli stai insegnando. Si tratta di mettersi in gioco come docente e come ricercatore, di innescare un meccanismo di reciproca influenza dagli esiti imprevedibili. Ci vuole apertura, e coraggio”.

Chiunque abbia varcato la soglia del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale alla Sapienza – Università di Roma sa bene quanto saldo sia il legame tra lei e i suoi studenti. L’attenzione ai dettagli, la perenne disponibilità a risolvere dubbi via email, la quantità indescrivibile di studenti seguiti nel percorso di tesi. Dove trova la forza di dedicare agli studenti così tanto tempo, ed energie mentali, lì dove molti altri docenti si fermano?

“È la voglia di portare avanti quella scommessa, a partire dal livello base che è quello dei corsi, degli esami e della tesi. E, riprendendo il discorso di prima su cosa è rimasto invariato e cosa è cambiato, è qualcosa che ci si può permettere molto di più in un corso di magistrale, con un numero ridotto di studenti abbastanza focalizzati sul campo di studi che stai arando. Poi, è qualcosa che è più facile fare quando si ha l’opportunità di occuparsi a livello scientifico di due territori come quello del giornalismo e della politica, che sono in continua evoluzione e ti offrono stimoli giornalmente.

La lezione su come ogni servizio televisivo sia una ricostruzione di una parte di realtà, che scegliamo di riprendere con la macchina fotografica o la telecamera, la fai sempre. Oggi nelle slide metti l’immagine del poliziotto e della donna di Piazza Indipendenza, e da lì vengono percorsi mentali e di discussione differenti da quelli che venivano dall’esempio dell’anno scorso.

La lezione sulla politica pop la fai sempre. Oggi nelle slide metti Berlusconi davanti al banco di caramelle del supermercato e non resisti a far vedere anche qualche meme che è stato costruito su quell’immagine, e via così. Quel che è meno facile è accettare l’influenza reciproca che dicevo prima. Allora, se gli studenti accettano di buon grado di lavorare su quella che per te è la parte meno interessante dell’analisi della politica in tv, la rilevazione dei tempi parola, forse vale la pena di essere meno duri su quei metodi, e di vedere se magari dalla ricerca e dagli stimoli che ti hanno dato ne esce qualcosa di innovativo. Se sono di più gli studenti che vogliono provare nella tesi ad applicare gli strumenti di analisi del talk alle trasmissioni sportive che a quelle politiche, anche se non le hai mai seguite per passione e hai sostenuto un po’ per stereotipo che sport e politica hanno molto in comune, vale la pena di approfondire.

E infatti ho appena approfittato di un fortuito incontro con Pippo Russo per progettare insieme un libro sul talk sportivo. E intanto, per non mollare la teoria e il metodo, con Paolo Montesperelli e Cristina Sofia stiamo lavorando a un libro sull’analisi del contenuto nei testi mediali, che sarà prima sperimentato con e poi somministrato agli studenti del corso di Analisi dell’informazione e dei pubblici. Quest’ultimo esempio credo che sia il più rivelatore. Siamo sempre lì: se trovi dei degni compagni di viaggio, la strada scorre veloce.

Il Professore di un’Università Pubblica intervistato sul sito di una scuola privata è un po’ il termometro dei tempi che evolvono. L’Università, specie nel campo della comunicazione e del marketing, vive un periodo delicato. L’autorità intellettuale degli Atenei viene spesso messa in discussione per via del loro distacco (più o meno tangibile) dal mondo del lavoro. Detto questo, l’Università resta e sarà sempre un’insostituibile palestra per la mente e lo spirito. Dunque, come vede evolvere il sistema accademico da qui ai prossimi anni?

“Il distacco dal mondo del lavoro che viene imputato all’Università, specie a quella pubblica, è legato alla necessità non solo di rendere conto ai meccanismi ministeriali di cui parlavo prima, ma soprattutto di fornire una formazione completa, che quindi non può per definizione essere mirata a un obiettivo ‘chirurgicamente’ circoscritto. Quello è il compito delle varie specializzazioni, dei corsi di formazione e dei Master, pubblici o privati che siano. Ma le due realtà non possono essere considerate come alternative: lo so che ci vuole il doppio del tempo e dell’impegno, ma per essere un professionista completo serve unire i due percorsi.

È qualcosa che in piccola parte è stato riconosciuto dai nostri ‘stakeholder’, per esempio nel mio campo è importante che l’Ordine dei Giornalisti continui a ribadire l’indispensabilità di un titolo di laurea insieme a esperienze professionalizzanti che si possono fare durante il percorso (a patto di essere abbastanza determinati) o a seguire.

Il sistema accademico non può che continuare a inseguire questa professionalizzazione, ma quel che non può dimenticare è il suo ruolo di Università, di luogo di confronto senza condizioni, come recitava un bel libretto di qualche anno fa di Jacques Derrida e Pier Aldo Rovatti. La prima spinta è obbligata, ci sono i rapporti di valutazione da compilare. La seconda però viene dalla concezione stessa della propria professione, e del suo senso nel mondo, ed è un bel contrappeso.

Togliamo per un attimo la maschera del docente e proviamo a indossare quella del mentor. Quali sono i consigli principali che darebbe a uno studente neo iscritto alla Facoltà di Scienze della Comunicazione e determinato ad ottenere il meglio dalla propria esperienza?

“Avere pazienza: ci si iscrive a una Facoltà piuttosto che a un’altra per una sorta di innamoramento, non può diventare amore per tutti, ma ci vuole tempo anche solo per capire se si tratta di un’amicizia che val la pena di coltivare. Non ci si può aspettare i fuochi d’artificio sin dai primi esami, ma bisogna cominciare quanto prima a raccogliere i frammenti con i quali costruire la propria esperienza di università. Investire nella propria esperienza, anche a rischio di impelagarsi in progetti che al momento possono apparire come perdite di tempo, ma se stuzzicano almeno una delle nostre corde valgono la pena.

Poi, crederci: il mondo del lavoro cambia con un ritmo tale che se parti oggi con l’idea di fare un certo mestiere intanto che hai terminato l’università c’è il caso che il mestiere sparito, o sia stato reso irriconoscibile dal confronto con un’utenza che sviluppa nuovi sogni e bisogno con tempi serratissimi. Allora cosa possiamo fare per non essere travolti? Acquisire saperi e competenze che, grazie alle esperienze che abbiamo maturato nel percorso, siamo in grado di spendere dove prima non avremmo neanche immaginato di andare”.