Gianluca ‘Fogliazza’, Graffiante Vignettista e Blogger del Fatto Quotidiano

Dal lavoro in fabbrica alla produzione di disegni, ecco un professionista che non smetterà mai di graffiare il mondo con la sua matita.

Ho conosciuto Gianluca Foglia, in arte ‘Fogliazza’, circa 3 anni fa all’Università degli Studi di Bologna. Alcuni studenti della Facoltà di Comunicazione organizzarono un evento sul tema del lavoro, e invitarono proprio noi due. Eravamo perfetti sconosciuti, facevamo lavori diversi ma eravamo uniti da un’attività comune: essere blogger del Fatto Quotidiano.

Non avevo mai conosciuto un disegnatore. Gianluca conquistò agilmente la platea dei giovani, raccontando le sue vicissitudini umane e professionali. Alla fine dell’evento disegnò anche un fumetto, in tempo reale, come dedica finale. Fu come un tweet, però bello.

Gianluca ha realizzato illustrazioni e fumetti per tutti i contesti. Nei blog e sui giornali punge lo spirito critico, nelle aule accademiche lo infiamma. È uno di quegli artisti senza età, che mette la propria arte al servizio delle persone e sa comunicare con chiunque. Perché chi ha talento riesce a farlo, mentre tutti gli altri si chiudono nell’eco assordante della loro voce.

Gianluca, al contrario, ha scelto di esporsi – online e offline. Ha imparato a digerire la bellicosità dei commentatori sul Fatto Quotidiano, così come ha imparato a gestire la pressione sociale legata alla trattazione di temi spesso scomodi. Gianluca continuerà a combattere una nobile battaglia – per la sua famiglia, per Parma, per tutti. La sua matita resterà leggera nel tratto ma pesante nel messaggio.

Di seguito la sua intervista.

Fare il vignettista non significa solo saper disegnare. Significa padroneggiare la capacità creativa alla base di (quasi) qualunque mestiere, quella capacità di semplificare la realtà e tradurre pensieri complessi in immagini. Secondo te, criticamente, tutti posso realizzare una vignetta o c’è una componente innata?

“Credo che tutti possano fare una vignetta se parliamo di un singolo disegno. Ma per farla bene qualcosa in più occorre. Occorre la componente innata, quella che rende speciale quel qualcosa che se fosse generalizzato sarebbe ordinario.

Credo anche sia giusto che anche nel caso di una bella vignetta non tutti siano in grado di farla: componenti quali studio, determinazione, talento, fiducia, sono passaggi di un percorso che determinano una selezione naturale. Sono tante sfumature di un’unica tinta: essere solo una di queste sfumature non basta, come non basta saper disegnare in modo meraviglioso se poi questa meraviglia non sa trasmettere un messaggio.

Il carattere di ciascuno di noi è innato e unico, da qui a rendere uniche anche le nostre doti ci passerà in mezzo (o addosso) la vita delle esperienze. Reagire nel modo giusto farà la differenza nel crescere quella componente innata”.

Nell’immaginario collettivo lavorare in fabbrica significa fare piuttosto che pensare. Vuoi perché il lavoro è concepito come ripetitivo e alienante, vuoi perché a un operaio viene concesso poco margine di immaginazione. Col senno di poi, come pensi abbia contribuito la tua lunga esperienza in fabbrica rispetto alla tua futura attività creativa?

“Per molto tempo ho pensato che quelli di fabbrica fossero anni persi. Considerando che si trattava di una lavoro fatto per necessità e non per aspirazione, questa considerazione era ancora più marcata. Ma in quegli anni ho potuto pensare molto, nelle ore trascinate per arrivare a fine turno, durante le quali al cervello non era chiesto di elaborare grandi concetti, durante i tempi morti, durante le pause, ho potuto prendere molti appunti ed essere richiamato molte volte da capireparto intolleranti alla mia ‘indisciplina’.

La ripetitività del lavoro e la mancanza di creatività in esso non hanno fatto che generare una rabbia che col tempo s’è trasformata in ostinazione: perseguire un sogno. Ma più passava il tempo e più due cose mi assillavano: la paura di non realizzarmi e l’abitudine a non avere il coraggio di cambiare. 12 anni di fabbrica hanno fatto la mia gavetta (gli ultimi 8 dei quali passato contemporaneamente a disegnare per costruire le prime collaborazioni) e mi hanno permesso di conoscere un mondo del lavoro di cui posso a ragion veduta parlare. S’è forgiata la mia determinazione. Avrei potuto rinunciare, non l’ho fatto”.

Viaggi, esplori e soprattutto condividi la tua arte, nei Licei e nelle Università. Seminari, laboratori e workshop – sono tanti i contesti accademici che ti hanno visto protagonista. Ribaltando i ruoli, qual è la grande lezione che ti sei portato a casa dal contatto diretto coi più giovani?

“I ruoli si ribaltano sempre, subito: parti docente e prosegui allievo, sempre (se hai l’umiltà di ammettere che hai sempre qualcosa da imparare). La grande lezione deriva dal fatto che in essi mi specchio, in essi rivedo me stesso e non mi sottraggo alla promessa fatta: se un giorno disegnare fosse diventato il mio mestiere avrei restituito un po’ della mia fortuna a chi ne avrebbe avuto bisogno e non solo per fare il mio stesso lavoro, ma per incoraggiare a perseguire un sogno.

Con i giovani ho imparato che non puoi vantarti (come accade con gli adulti, che spesso sono cause perse, adulatori solo per il fatto che rappresenti quello che avrebbero voluto essere), che devi essere autentico, che ti mettono in discussione continuamente e questo ti impedisce di dare per scontata la loro fiducia: sei spronato ad essere autentico altrimenti ti mollano alla prima curva. E fanno bene. E poi c’è quella prospettiva che da adulti si dimentica: quella di chi ha la vita davanti e aspira a crederla come un’occasione (prima che si sia atteso troppo per osare, per finire nell’alibi che ‘vorrei ma non posso più’)”.

Scrivere online significa esporsi, ed esporsi significa accettare lo scontro. Scrivere sul Fatto Quotidiano, poi, implica gettarsi in una mischia digitale dai toni emotivi spesso ingestibili. Quanto è stato difficile per te imparare a gestire il confronto online rispetto alle tue opinioni?

“On line è difficile avere un confronto. Un confronto è possibile solo con chi guardo negli occhi, ne sento il tono di voce, ne percepisco l’emotività. Il confronto è possibile solo con chi si assume la responsabilità dell’empatia, su internet è molto più facile mentire e questo crea il presupposto per un confronto che in realtà non esiste.

Uso la rete come vetrina, come provocazione, come palco della mia opinione. Non accetto il confronto perché non considero l’opinione di chi ha false credenziali o usa un nickname, non credo al confronto tra chi agevolato dalla ‘distanza’ on line si concede l’ebbrezza di esprimersi senza filtri. Rispondo solo a messaggi diretti, la responsabilità di un confronto non può essere una cosa pubblica, altrimenti uno dei due finirà per usare la bacheca dell’altro come platea, mendicando un consenso costruito a tavolino.

Per un periodo i commenti violenti ai miei articoli mi provocavano turbamento, era come se quei toni avessero la capacità di uno che alza la voce e cerca di opprimerti. Se qualcuno vuole davvero confrontarsi con me sa come raggiungermi (se non lo fa preferisce nascondersi nel coro), se voglio confrontarmi con qualcuno gli offro una birra (a patto che sia educato!)”.

Jean de Santeuil è l’autore della celebre frase ‘castigat ridendo mores’. La satira non è stata concepita solo far ridere, come la comicità, ma anche e soprattutto per far riflettere. Da qui la necessità di far riflettere, e stimolare lo spirito critico, spesso proprio a partire da una vignetta. Pensato al tuo vissuto quotidiano te c’è spazio per la satira, oggi, in Italia?

“La satira è un esercizio di ottimismo quotidiano, perché aspira a far riflettere, a provocare, a mettere in discussione, a graffiare e assumere posizioni scomode perché fuori dal coro​…​ tutte cose che oggi, nel nostro paese, languono.

Per la satira in Italia c’è sempre spazio (ma viene confusa con la comicità quando non addirittura col cabaret), piuttosto occorre domandarsi: se venisse a mancare la satira qualcuno se ne accorgerebbe? Perché non è né l’epoca né il luogo giusto (l’Italia) per riflettere.

La satira, nel rispetto del ruolo sopra citato (vedi Corrado Guzzanti) potrebbe avere un ruolo decisamente formativo, ma ha perso progressivamente la sua identità, abdicando a forme comiche che si spacciano per satiriche (vedi Maurizio Crozza), preferendo apparire piuttosto che essere.

Forse l’Italia non ha più bisogno della satira: si accontenta di essere un fumetto”.