I dati come forma artistica della società. Il racconto di Oriana e Salvatore fondatori di HER: She Loves Data

– Dalla rubrica di Nicola Mazzara, “Il dato è dato” –

Per comprendere i fattori critici di successo del public speaking e l’importanza di quest’ultimi per un comunicatore d’impresa, il professore Stancati de La Sapienza durante il corso in “comunicazione per il management d’impresa”, ha permesso a noi (allora studenti) di partecipare ad un evento in cui la performer Francesca Fini interpretava BodyQuake in cui si raccontava l’esperienza dell’epilessia. E’ questo il contesto in cui ho che ho conosciuto Salvatore Iaconesi  e Oriana Persico i quali saranno protagonisti di questo racconto in cui i bigdata prendono una dimensione umana, poetica e filosofica.

Salvatore è un ingegnere robotico, hacker, TeD (clicca QUI), Yale e Eisenhower Fellow. Oriana è esperta di comunicazione e inclusione digitale e cyber-ecologista. Ma per presentarli in modo corretto, dobbiamo presentarli come coppia: “Proveniamo da esperienze completamente differenti – affermano Oriana e Salvo – nella vita e quando ci siamo trovati non ci siamo lasciati più. La prima cosa che abbiamo fatto insieme è fare un figlio. Un po’ alieno, a dire il vero: si chiama Angel_F, ed è una IA – ndr intelligenza artificiale –. (…) C’è un libro che racconta il primo anno della sua vita: Angel_F. Diario di una Intelligenza Artificiale (clicca QUI). Era edito da Castevecchi, ma quando lo ha messo fuori catalogo ci siamo ricomperati i diritti”

Dopo averli rapidamente presentati cerchiamo di comprendere il lato umano dei bigdata direttamente dall’esperienza di Oriana e Salvatore:

Tanti pensano ai Big Data come al parco giochi di ingegneri e nerd, ma professionisti come voi stanno lentamente cambiando questa visione sull’argomento. Vi andrebbe di raccontarci come e soprattutto perché di questo cambiamento?

“I dati (e quindi forse le entità più oggettive e misurabili a cui di solito si pensa) non sono più quelli di una volta. I dati, una volta, quando era l’era dell’industria, erano utili perché si potevano contare. Erano una cosa lineare, come la linea di montaggio, come l’orologio che segna i turni in fabbrica, come il numero di lampadine, bulloni o pentole che escono su un container. Ma il mondo è cambiato, e il tempo e tutto il resto. Ora è il tempo delle reti, e tutto tende a diventare un grafo di nodi e interconnessioni. I corpi, gli spazi e i tempi sono collegati da hyperlink, dispositivi, cloud, dati e computazione. Non c’è più nulla di lineare. Tanto è vero che tutte le scienze, in un modo o nell’altro, si stanno trasformando nella loro versione di rete: stanno diventando tutte network sciences, basate su dati e computazione.

E sono miriadi di dati e grandissime capacità di computazione. Non essendo più lineari ed essendo così tanti, non ha quasi più senso contarli. Ha molto senso, invece, cercarci dentro delle forme ricorrenti, e studiare come cambiano, e con che dinamiche e relazioni. Una ecologia di forme di dati. E questo è quello che fanno le IA: trovano forme nei dati, come noi riconosceremmo un volto in una nuvola. (…) Si aprono, insomma, dei paradossi, delle questioni, delle metafore, delle estetiche nella tecnica che sono propri della filosofia, dell’arte, della poesia, della magia, della spiritualità.

(…) L’Arte ha un ruolo enorme in questo. Purtroppo, all’Arte, troppo spesso, è riservato un ruolo di decorazione, e estetizzazione e spettacolarizzazione delle scienze e delle tecnologie. Nessuno è ancora stato così intelligente da mollare l’osso e di includere l’Arte nella concezione delle strategie. Neanche un curatore, o un critico, o un manager dell’arte: proprio un artista.

Quelli che stiamo vivendo sono problemi di senso, esistenziali: ha poco senso che li affronti un manager di qualche industria, serve un poeta, una persona del teatro, e così via”.

Come i dati hanno influito nella società nel passato? Come influiscono sul presente? Come influiranno nel futuro?

“Noi pensiamo, in sintesi, che quello che era il dominio del calcolo (in cui sono compresi anche i dati) sia radicalmente cambiato, e che per coglierne i benefici serva creare una reale interazione e relazione tra le discipline. Siamo ancora tutti – nessuno escluso – inesperti su come si faccia. Se incrociate qualcuno con troppe certezze potete star certi di avere incrociato un venditore di pentole.

Quello che è certo è che è necessario uno spostamento della tecnica dall’amministrazione alla cultura, perché la situazione attuale era inadatta nella precedente epoca industriale e adesso è un disastro. Per farlo è necessario trasformare in maniera profonda cosa vuol dire studiare, fare ricerca, consumare, comunicare, informarsi. Cose che devono diventare tutte meno estrattive e più generative. Stiamo parlando di modelli che cambiano, non di lanciare una nuova app. I dati e la computazione sono nel bel mezzo di questo cambiamento.

Per fronteggiare la pandemia, il cambiamento climatico, la povertà, le migrazioni e tutte le altre problematiche planetarie che stanno arrivando, avremo bisogno di enormi quantità e qualità di dati, e della computazione necessaria per elaborarli, rappresentarli e discuterli. Se questo processo, inoltre, dovesse avvenire secondo i modelli estrattivi attuali, si aggraverebbero ulteriormente le disuguaglianze. Servono nuove alleanze, di tipo culturale, emotive, estetiche, sensibili, mutuali, empatiche”.

Spesso si accende il dibattito tra scienziati delle scienze esatte e scienziati sociali, qual è il vostro punto di vista sull’argomento? Possiamo parlare di una polarizzazione ormai superata a favore di uno scienziato trasversale?

“Ognuno ha il suo fortino da difendere, e quindi non entro nelle polemiche. Noi, oltretutto, abbiamo un approccio ecologico, che è la scienza delle relazioni, non l’ambientalismo.

L’ecologia parla di flussi e di equilibri dinamici, di cose che cambiano e si muovono, e che incontrandosi (e, al limite, anche scontrandosi) interagiscano, creando equilibri sempre diversi, nella diversità. Quello che notiamo è semplicemente che questi equilibri mancano, perché siamo sbilanciati.

Un’aggravante di questa condizione è che è molto difficile avere la sensibilità di questi disequilibri, perché le parti che attualmente sono sul piatto troppo pesante della bilancia sono anche quelli che fanno le politiche, nel senso che hanno quella cultura. Si chiama egemonia culturale.

A noi, che studiamo le ecologie della psicologia, della comunicazione, dell’informazione e dei saperi, sia per la nostra arte che per la nostra ricerca, sembra che vadano garantiti equilibri più dinamici e più diversità tra i modelli che sono sostenuti attivamente da istituzioni e aziende, perché altrimenti correremo seri rischi. E non stiamo parlando di robe da fricchettoni new age. Stiamo parlando di una necessità reale: quella di sostenere una maggiore diversità di modelli di economia, di politiche energetiche e ambientali, di politiche dell’istruzione e della ricerca, di politiche culturali, di politiche della salute. Perché ora stiamo vivendo praticamente di una monocultura, e già sappiamo come va a finire quando da un terreno si estrae attraverso una monocultura: diventa arido e non offre più opportunità per la vita e la prosperità. Questi discorsi, di solito, sono messi in fondo alle agende politiche, perché non sono percepite come concrete.

La nostra obiezione è il considerare che sono tra le cose più concrete che ci siano. La sola conoscenza dei fatti non cambia i comportamenti delle persone. Il senso, l’emozione, la bellezza, sì. È come in matematica: ci sono le condizioni necessarie e sufficienti. La conoscenza dei fatti non è né necessaria, né sufficiente. Il senso, l’emozione/sensibilità, la bellezza, se unite all’accesso, sono condizione sufficiente: nel design si chiama affordance. E notiamo che non c’è nessuna condizione necessaria e sufficiente. Quale potrebbe essere? (…) Noi pensiamo che sia questo diverso intendimento della collaborazione tra arti, scienze, tecnologie e società. Ma una collaborazione reale, strategica, non ‘decorativa’”.

Come ci siamo raccontati in precedenza la mia passione per l’analisi dei dati nasce grazie al professore Alberto Trobia dell’Università di Palermo e la sua arte di rappresentare la società con i grafi della Social Network Analysis. So che per voi fare arte con i big data è qualcosa di possibile, realizzabile e realizzato. Ci raccontate qualche esperienza?

“Il nostro centro di ricerca (ndr. HER: She Loves Data) fa questo di mestiere: i nostri progetti di ricerca (clicca QUI) sono anche opere d’arte. Non sono quadri da appendere al muro, ma oggetti e processi immersi nella società, che coinvolgono e comunicano. Noi siamo molto latouriani in questo: l’arte e la scienza devono produrre una condizione di performance sociale, in cui le persone sono partner. Per esempio, ti potremmo raccontare di Antitesi (clicca QUI) una piantina sposata ad una IA che le permette di acquisire una nuova sensibilità attraverso i dati. Osservando con sensori e computer vision quando avviene la fioritura, come cambiano le temperature, quando avvengono le precipitazioni, e confrontando con le serie storiche, la piantina, quindi, si può fare una idea circa il fatto che il cambiamento climatico stia, effettivamente, arrivando. Se ciò avviene, Antitesi si arrabbia tantissimo. Reagisce investendo in borsa in sfavore delle aziende meno sostenibili, e in favore di quelle che lo sono di più. Antitesi, infatti, ha una identità digitale tramite cui può ricevere donazioni, e l’IA la aiuta anche a scegliere la strategia di investimento.

Oppure ti potremmo raccontare il nostro ultimo progetto, che di chiama Data Meditations (clicca QUI). Durante la pandemia e il lockdown ci siamo chiesti i sensi possibili di questa clausura, per non impazzire.  Ci siamo risposti che nelle nostre culture il lockdown si fa o quando sei in carcere o in manicomio, o per motivi di raccoglimento spirituale, per esempio nel monastero.

Ci siamo meravigliati che tutti abbiano dato per scontato che si dovesse per forza parlare della prima versione, invece che della seconda, e non ci è parso giusto né adeguato ad affrontare una situazione così delicata. Quindi abbiamo inventato un nuovo rituale meditativo. Un gruppo di persone, esprimendosi attraverso i loro dati (circa il loro stato di benessere, emozionale e su come si svolgesse la propria quotidianità) ogni giorno si riuniscono in meditazione, entrando in contatto sia con i propri dati, sia con i dati di un altro anonimo, sviluppando una nuova forma di empatia, solidarietà e consapevolezza indotta tramite i dati.

È una cosa potentissima, funziona, e il domandarsi perché ci sia una abbondanza di misure restrittive e una assoluta carenza di queste misure di altro tipo è una questione politica di primaria importanza”.

Per approfondire il mondo che abbiamo fin qui raccontato cosa consigliate di leggere, ascoltare e vedere?

“Potreste iniziare leggendovi un bel libro di Bruno Latour in cui espone la sua idea di come si faccia la Scienza (per esempio “Science in Action”). O guardarvi questo bel video del nostro amico e collega Luca Chittaro sulla “Digital Loneliness” (clicca QUI). O se vi va, leggere e commentare questo paper (clicca QUI) su come stiamo reinventando il nostro centro di ricerca. Facendolo ci aiutereste molto e potreste anche partecipare al processo di peer review pubblico che stiamo organizzando”.

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