Federico Simonetti, Evoluzione di un Professionista dalla Filosofia al Growth Hacking

La più umanistica delle materie di studio da un lato, la più pragmatica disciplina lavorativa dall’altro. Ecco cosa vuol dire “non smettere mai di imparare” 

Growth Hacking, Growth Hacking, Growth Hacking. A giudicare dai titoli professionali che molti lavoratori italici si auto-attribuiscono su LinkedIn parrebbe essere una disciplina ampiamente diffusa. Eppure, a ben vedere, solo pochi ne potrebbero parlare davvero con cognizione di causa. Tra questi, c’è Federico Simonetti.

Federico offre una storia interessante, che deve far riflettere e ispirare. Da sempre armato di una solida cultura saggistica, intuisce sin dai tempi dell’Università l’importanza di unire la formazione alla professione. Intraprende un percorso esemplare attraversando le vie canoniche dello studio, dei social, della SEO e dunque – alzando il tiro verso una visione più strategica – anche del Marketing Digitale e del Growth Hacking.

Federico non è solo il co-autore del primo libro sul Growth Hacking in Italia. È soprattutto l’autore di una carriera illuminata, in cui ogni mossa è stata studiata con intelligenza cogliendo le giuste opportunità al giusto momento.

La scelta di rinunciare alla carriera di ricercatore, la scelta di fare SEO in Francia, la scelta di scrivere il primo testo italico su una materia calda e insieme a un collega (e amico) altrettanto brillante come Luca Barboni.

Felici di avere Federico in squadra, vi offriamo le sue parole.

1) Filosofia, Università degli Studi di Napoli. Questo è quello che recita il tuo percorso di studi su LinkedIn. Di anni ne sono passati da quel 2008 in cui terminasti il percorso della specialistica, e di cose ne hai fatte tante nel frattempo. Cosa pensi ti sia rimasto di quell’esperienza universitaria apparentemente distante dal tuo attuale vissuto professionale?

“Ma in realtà sono pure recidivo: tra il 2010 e il 2013 ho concluso un dottorato di ricerca, mentre ormai lavoravo a pieno regime. L’Università in generale è stato uno dei periodi più belli della mia vita, ho potuto fare e studiare – per la maggior parte – cose molto distanti tra loro che mi hanno portato spesso a mettermi in discussione. A differenza di molti altri, però, ho capito piuttosto in fretta che l’amore per lo studio andava coniugato con la capacità di farsene qualcosa delle proprie competenze accademiche. Da questo punto di vista, filosofia mi ha dato la capacità di entrare in sistemi di pensiero molto, molto diversi dal mio, dovendo sbattere la testa per comprendere, decifrare, apprendere. Credo che il vero merito di filosofia, ma dei percorsi di studio umanistici in generale, sia proprio quello di insegnarti a non smettere mai di imparare. Se ne hai voglia”.

2) Social Media, SEO, Pubblicità. Il Web Marketing Specialist riunisce queste e altre competenze sotto un unico cappello. Gestisce la complessità e si interfaccia direttamente col cliente, rivestendo un ruolo centrale in un’agenzia come You&Web nella riuscita di un progetto di comunicazione o di vendita. Quali sono, secondo te, le abilità indispensabili per un Web Marketing Manager o Specialist?

“Un markete​r deve avere ​soprattutto ​empatia e visione strategica. Senza queste caratteristiche, non è un marketer​: può essere un tecnico, anche molto bravo, ma rimarrà uno specialista di uno strumento, non qualcuno in grado di posizionare qualcosa sul mercato. Perché in fondo è questo, ciò di cui si tratta: a prescindere dallo strumento o dal canale, devi essere capace di capire come far ad arrivare alle persone giuste, al momento giusto, con il prodotto o l’offerta giusta. Questo vuol dire avere esperienza e cognizione di canali molto diversi tra loro: digital, social, visual…​ Il marketing non è illusione, ​vendere non significa ‘fregare il cliente’. ​È comunicazione​ e, nella comunicazione, è cruciale capire come si parla, a chi si parla e in che momento​.​ Se no, stai vendendo fuffa.​

Molto spesso ​i clienti non capiscono questa complessità, vogliono semplicemente ‘vendere su internet’- il che di per sé non vuol dire nulla. L’asso della manica di un web marketer, in questo, è anche quello di capire cosa serve davvero al cliente​ e spiegarglielo in modo estremamente semplice, comprensibile, senza pretendere di vendergli la luna per un cesto di fichi.

3) Fare SEO è stimolante per la mente. Dopotutto, significa abbracciare una materia complessa metà tra la semantica, la psicologia di massa e la natura algoritmica dei motori di ricerca. Fare SEO all’estero deve rappresentare una sfida ancora superiore. Cogliamo dunque la palla al balzo per parlare della tua esperienza con Cisbio Bioassays. Come hai affrontato la sfida professionale in Francia?

​”La mia esperienza con Cisbio Bioassays prima e con Biocodex poi è legata a una serie di consulenze strategiche fatte per altre aziende​, sempre in ambito B2B: in sostanza, sono riuscito a penetrare un mercato straniero sfruttando le mie competenze (alte) e il mio prezzo (basso per il mercato francese). Il ‘cavallo di Troia’, se così si può dire, è stata la SEO e il fatto che, nel mercato d’oltralpe c’è un atteggiamento molto text-oriented al tema e pochissima preparazione sul lato strettamente tecnico (spider-accessibility, robots, etc.). Il risultato è che i loro siti sono dei colabrodo da un punto di vista SEO e basta veramente poco per inguaiarli definitivamente.

Paradossalmente, un vantaggio enorme è derivato dal mio percorso di studi: chi vi dice che studiare Deleuze, Lacan, Sassure o Foucault (soprattutto, leggerli in lingua originale!) non serve a niente, probabilmente non ha mai dovuto lavorare in francese”.

4) Sei autore insieme a Luca Barboni del primo libro in Italia sul Growth Hacking. Oltre a farti i complimenti per il traguardo, immaginando la densità della tua (e della vostra) agenda viene naturale chiedere: come si organizza la scrittura di un libro a quattro mani?

​”Faticoso! No, scherzi a parte: Luca è la classica persona con la quale hai sempre la sensazione di essere nella stessa stanza, anche se lui sta in Silicon Valley​ e io in Cilento. La chiave vincente è stata quella di avere un indice chiaro e con un senso definito: da quello si è trattato solo di aggiungere i pezzi a mano a mano che erano completati. Su questo, Google Drive ci è stato di grande aiuto, ma non quanto gli editor che – pazientemente – hanno letto il libro segnalandoci refusi, anacoluti ed errori vari. Onestamente, questo libro è figlio di un’estate di fatica, ma anche della dedizione di tanti amici, che abbiamo voluto ringraziare a inizio volume”.

5) Restiamo sul tema del Growth Hacking. In Italia è esploso da pochi anni, diventando materia di numerosi master e corsi di formazione. Ha un nome intrigante e, di base, pare essere la materia più “sexy” del momento per professionisti del digitale e wannabe esperti. Spiegaci come leggi l’attuale evoluzione della materia in Italia. Pratica lavorativa concreta o moda passeggera? ​

​”Allo stato attuale, il Growth Hacking in Italia non si è evoluto molto: al di là di poche persone veramente competenti che operano ‘col culo per strada’ mi sembra che ci siano due polarità prevalenti. Da una parte ci sono i consulenti/docenti che, in sostanza, vendono formazione senza alcun tipo di competenza, magari senza aver mai lavorato in una startup o aver fatto un programma di accelerazione; dall’altra, web agency che si sono riciclate facendo finta di vendere il Growth Hacking come servizio ‘da agenzia’.

Onestamente non credo che siano due atteggiamenti corretti: abbiamo scritto il libro anche per cercare di fare un po’ di chiarezza ​su un tema che, per molti versi, rischia di portarsi dietro tante illusioni e di permettere a tantissimi cialtroni di distruggere la fiducia degli imprenditori e degli studenti. Il Growth Hacking si può studiare, si può imparare (ci sono moltissimi corsi validi, in giro), ma va soprattutto applicato come mindset, nel lavoro di crescita di un’azienda (startup, PMI, impresa individuale…) partendo da esperimenti (meglio se non convenzionali) basati sui dati: chi non fa questo, sta facendo solo web marketing. Magari benissimo, eh, ma il Growth Hacking è un’altra cosa”.

6) Un famoso aforisma recita: “chi sa fare fa, chi non sa fare insegna”. Eppure il web sembra smentire tale teoria. In un contesto stagnante come quello dell’accademia tradizionale, sono proprio i professionisti di settore a dover condividere le proprie esperienze in aula attraverso corsi di formazione specializzanti. Che valore dai alla docenza nel tuo percorso professionale?

“​Credo che il ‘discorso dell’Università’ sia ormai in crisi, a diversi livelli, da più di trent’anni. Nello specifico, l’insegnamento accademico (che ne è una piccola parte) è parecchio sfasato rispetto alla realtà del mondo sociale e del mondo del lavoro. Te lo dico da persona che avrebbe voluto fare un percorso accademico e, in parte, l’aveva cominciato. Il punto è: se devo aspettare vent’anni senza guadagnare una lira per diventare professore, onestamente, mi metto a fare altro. Così ho fatto, e così hanno fatto molti altri, bravi e competenti: quindi c’è tanta gente, nel nostro mercato, che avrebbe potuto e voluto insegnare e fare ricerca che, per un motivo o per l’altro, hanno scelto altre strade. Gente che, comunque, a insegnare è capace.

Nel frattempo, i professori sono sempre più vecchi, i programmi sono sempre più astratti e orientati alla teoresi, manco alla teoria: lamentarsi del fatto che l’Università non ti insegni ‘a lavorare’, è stupido dato che non è quello il suo ruolo. La maggior parte delle cose che impari all’Università sono esercizi di stile ripetuti all’infinito. Non dico che si tratti di ‘roba inutile’, ma in generale si tratta di teoria speculativa​ (​peraltro insegnata male​)​. All’Università, infatti, si tende a fare teoretica e non teoria. ​La teoria è molto utile, come i fondamentali nel basket: devi imparare a palleggiare e a camminare prima di pretendere di andare a canestro. Certo, è una seccatura, ma è necessario: se sbagli i fondamentali fai fallo, e se fai fallo perdi. Avere una buona preparazione teorica è un vantaggio, non uno svantaggio.​ ​Il problema è che la teoretica non ha a che vedere con la teoria, perché la teoria ti prepara alla prassi, la teoretica ti prepara a produrre altra teoria. Insomma, è come se l’Università ti preparasse a fare l’allenatore di basket, non a giocare a basket. Ecco perché è molto più importante quello che fai fuori dall’aula.

​Credo che tanti di noi, che siamo usciti dalle aule universitarie​ cercando qualcosa da fare, abbiamo trovato nel web uno strumento per unire teoria e prassi (e perché no, anche un po’ di teoretica). Qualcuno se la prende comoda e, nel tempo, diventa solo un docente, smettendo di fare. Questo è un errore enorme, perché resti indietro. Prendi me: amo insegnare, ma non posso fare solo quello, mi irrigidirei. Quindi scelgo con estrema cura i corsi da fare e non supero mai una certa soglia. Così si evita anche di vedere troppo la mia brutta faccia in giro”.

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